La tradizione italiana del fare (micro) impresa
È solo viaggiando lungo lo Stivale che si scoprono i tanti volti del fare piccola impresa in Italia. Trenta di questi hanno dato vita al volume Il futuro nelle mani (Egea) altri undici, alumni Bocconi, si raccontano in questo servizio. Sono storie che parlano di una via alternativa al mondo tecnologico e patinato che, dall'Italia stessa alla Sylicon Valley, ha creato la fama delle startup. Un modo italiano nel fare impresa, più nostro, originale e dunque, al fondo, più credibile. Non solo startup ma soprattutto imprese ri-create dalle nuove generazioni. Un primo elemento che differenzia queste imprese italiane dai modelli di startup americane riguarda le competenze su cui si basa la neo-nata impresa o l'azienda ri-generata. Nei casi visti, ci sono giovani che fondano la loro idea su un'abilità tecnica o manuale, mentre molte delle startup d'oltreoceano, celebrate dalle cronache finanziarie, hanno per protagonisti dei ricercatori e sono di fatto degli spin-off universitari a prevalenza tecnologica. Come si può facilmente comprendere, per sviluppare la capacità di fare, c'è bisogno, oggi come ieri, di molto esercizio, ragion per cui, lo studio viene costantemente integrato con la pratica lavorativa.
Questa distintiva capacità di fare è molto lontana dalle conoscenze e competenze degli startupper fuoriusciti dal mondo della ricerca accademica. Una seconda differenza riguarda l'origine e la velocità della crescita nella fase di avvio. Le aziende analizzate, in prevalenza impegnate in settori manifatturieri tradizionali, hanno tempi di maturazione più lunghi e il loro successo si decreta necessariamente su orizzonti temporali più estesi. Questa dinamica, letta secondo la linea di pensiero che s'ispira alle esperienze americane, non sarebbe giudicata positivamente perché una caratteristica vincente di quel modello è la crescita esponenziale fin dai primissimi anni di vita. Un eventuale giudizio negativo sulla lentezza della crescita in questi casi non terrebbe in giusta considerazione le caratteristiche dei settori analizzati, non adatti a un'impennata fulminea come avviene di norma nel mondo delle tecnologie informatiche o digitali. Prendere a riferimento quelle dinamiche di crescita e usarle come metro per misurare la bontà di progetti imprenditoriali avviati in settori come il chimico, il tessile o l'agroalimentare, risulta quanto meno fuorviante.
➜ I maratoneti del belpaese
Le diversità di comparto mettono in luce una terza differenza utile per delineare una via italiana alla creazione o alla ri-generazione di impresa che riguarda il concetto di innovazione. Le startup leggendarie sono centrate su un concetto di innovazione in cui la dimensione tecnologica è la sola a contare. I casi analizzati dimostrano invece che si può raggiungere una notorietà di nicchia anche a livello internazionale puntando su cambiamenti e dunque facendo innovazione ad ampio spettro nel prodotto, nel design, nella distribuzione o nella comunicazione coerentemente alla vocazione e alla specializzazione manifatturiera del nostro paese. Una quarta differenza può poi essere rintracciata nell'evoluzione della figura dello startupper americano rispetto al fondatore italiano. I giovani imprenditori del primo tipo sono visti come centometristi che devono dare il massimo nello sprint iniziale per poi eventualmente, una volta ripagati dei loro sforzi con somme cospicue, buttarsi a capofitto in un'altra impresa o in qualche caso, quando le somme sono davvero importanti, dedicarsi alla filantropia sociale o culturale.
Nei casi di successo italiani, per tutte le diversità già evidenziate, l'imprenditore assomiglia di più a un maratoneta, che attraverso la costanza e l'approfondimento raggiunge la massimizzazione del risultato economico nel lungo periodo. Un'ultima differenza, da non trascurare per questo, riguarda il contesto finanziario italiano rispetto a quello americano. Le aziende incontrate crescono inizialmente solo sulla base dell'autofinanziamento: non ci sono venture capital o private equity pronti a supportarla.
È mancato un contesto finanziario, pronto ad iniettare una robusta dose di mezzi monetari nei primi anni di vita. Le startup alle quali ci si vorrebbe ispirare, invece, si muovono in uno scenario molto più ricco di opportunità finanziarie a partire dal mercato azionario. Se non si riconosce questa diversità, si rischia di alimentare utopie e conseguenti disillusioni o di offrire, agli aspiranti imprenditori, l'alibi dell'immobilismo, nell'attesa che il nostro sistema evolva e da periferico qual è diventi centrale come quello americano. Quello che la realtà fa emergere non sono eroi da copertina ma giovani che, per un desiderio di riscatto o di espressione personale, si sono mossi indipendentemente dai presunti vincoli del contesto, facendo i conti con le caratteristiche del terreno di gioco in cui si sono trovati a voler fare impresa.