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La stagione degli scioperi

, di Federico Farina
Un primato l'Italia ce l'ha: quello dei giorni di sciopero all'anno per mille lavoratori. Sono, infatti, ben 135 contro una media europea di 44. Dai tassisti agli insegnanti, dagli operai ai lavoratori pubblici tutti cedono al suo fascino

Quello dei trasporti pubblici è quello che si fa notare di più. E uno degli scioperi più antipatici per i cittadini delle grandi città. Ma nelle ultime settimane non sono passati inosservati nemmeno le manifestazioni dei taxi, degli avvocati, delle poste, dei giornalisti. Nelle prossime, tanto per gradire, sono attese le proteste del settore elicotteri, degli istituti di vigilanza, degli insegnanti. E per completare il quadro, salvo revoche, il 17 novembre si fermeranno tutte le amministrazioni e le aziende pubbliche e private per lo sciopero generale. Il tutto concentrato in pochi giorni, perché anche lo sciopero, come i saldi, le castagne, o il raffreddore, è un prodotto di stagione, nel quale l'Italia vanta un poco invidiabile record. Secondo una ricerca dell'Osservatorio europeo sulle relazioni industriali (Eiro), infatti, nessun paese del continente ha un numero così elevato di scioperi e di lavoratori coinvolti. Tra il 2000 e il 2004 in Italia si sono perse ogni anno in media 135 giornate di lavoro ogni mille occupati, un dato secondo solo a quello della Spagna e ben al di sopra della media Ue di 44 giornate. A guidare la classifica i settori dei trasporti, quello manifatturiero e le telecomunicazioni, considerati rei di "un eccessivo ricorso allo sciopero" anche secondo la relazione della Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali istituita nel 1990.

Gli scioperi, in Italia, insomma, sono tanti, frequenti, ma di breve durata; una peculiarità che ha origini storiche, politiche e sociali. "Per almeno trent'anni, dagli anni Settanta al 2000, in Italia si è registrata una conflittualità in media con quella europea", commenta Stefano Liebman, docente di Diritto del lavoro all'università Bocconi. "L'aumento rilevante del fenomeno negli anni 2001-2004 è da mettere in relazione con l'atteggiamento provocatorio del governo di quegli anni. E' normale perciò che da noi molti scioperi siano di origine politica e con intenti dimostrativi, piccoli braccio di ferro nei quali si cerca di rendere al minimo i costi per tutti".

I costi, già. Perché anche scioperare costa. Ma quanto? E, soprattutto, chi paga? La questione è controversa e, per alcuni aspetti, paradossale. L'azienda che subisce lo sciopero, infatti, è l'unica che, in qualche modo, ha margini di recupero, perché almeno risparmia gli stipendi dei dipendenti che si astengono dal lavoro. "Addirittura, in alcune fasi di ristagno economico e di eccesso di produzione, per l'azienda può essere un vantaggio", continua Liebman. "Tutti gli altri ci rimettono. Ci perdono in primis i cittadini, chi usufruisce dei servizi, come nel caso dei trasporti o delle comunicazioni. E naturalmente i lavoratori, perché in Italia i sindacati non ricevono dei contributi significativi dai dipendenti e dunque non hanno una cassa per pagare a questi le indennità sostitutive durante le astensioni. Nei paesi anglosassioni, al contrario, c'è una conflittualità più rara, ma più dura, si può andare avanti per settimane, perché il sindacato dà da mangiare agli operai". Se si considera, poi, che la gran parte delle manifestazioni di protesta in Italia riguarda le aziende e le amministrazioni pubbliche e incide sull'efficienza dello Stato, il cerchio si chiude con un saldo negativo soprattutto per chi con gli scioperi non ha nulla a che fare.

Le peculiarità del sistema Italia, tuttavia, non si esauriscono qui. A disegnare il profilo di un paese unico in Europa contribuisce anche il dato relativo ai motivi più frequenti di conflittualità tra dipendenti e aziende. Circa il 50% delle giornate perse per sciopero, infatti, sono giustificate dai mancati rinnovi contrattuali, un posto che in Europa è occupato dalle questioni relative ai salari. "La vera anomalia italiana non è che si sciopera molto, ma che il rinnovo dei contratti nel settore pubblico avvenga in modo sistematico e patologico due o tre anni dopo la scadenza", conferma Tito Boeri, tra i più noti economisti dell'università di via Sarfatti. "Spesso la vacanza contrattuale è responsabilità dei governi, che rimandano l'accordo di anno in anno per non farlo pesare sulle varie finanziarie. In parte, però, contribuisce anche la forma non evoluta di contrattazione che c'è in Italia. Io credo, per esempio, che per un paese con molte differenze di produttività tra aziende e aree geografiche sarebbe meglio cercare una contrattazione decentrata. Inoltre, occorre risolvere il nodo irrisolto della rappresentanza, perché troppo spesso accade che i tre sindacati principali non siano d'accordo tra loro. Non si capisce bene, insomma, quando uno dei tre può chiudere una trattativa e in rappresentanza di chi..." Anche le associazioni di categoria e i sindacati, insomma, hanno le loro responsabilità, e ne avranno sempre di più se non troveranno il modo di coinvolgere nelle proprie fila anche il numero sempre maggiore di lavoratori a tempo determinato, a progetto o con forme di contratto precarie. "I precari sono un doppio problema per i sindacati", conclude Boeri. "Innanzitutto perché mettono in luce l'asimmetria di trattamenti che c'è tra dipendenti e non e inducono a una riflessione seria sui contratti. E poi perché più sono i precari, meno gli iscritti al sindacato..." Mai come nei casi di conflitti industriali, infatti, l'unione fa la forza.