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La politica estera in Italia: quale interesse nazionale?

, di Anna Boccassini
Incontro-dibattito in libreria Egea con Vittorio Emanuele Parsi, Paolo Cacace e Giuseppe Mammarella

Dal conseguimento dell'unità nel 1861 ad oggi, l'Italia è stata protagonista di un vero e proprio miracolo, che ha riguardato il benessere raggiunto dalla popolazione. Da una situazione di grave arretratezza, il Paese ha raggiunto una condizione superiore a quella di molti altri paesi europei. Questo successo, però, non si è mai accompagnato a una crescita paragonabile della politica estera, che è sempre rimasta arretrata rispetto all'andamento generale del paese. Perché?

A questa domanda hanno cercato di rispondere il giornalista de "Il Messaggero" ed esperto di politica estera Paolo Cacace, Giuseppe Mammarella, già docente di storia contemporanea all'Università di Firenze e presso la Stanford University di Palo Alto, California, e Vittorio Emanuele Parsi, docente di relazioni internazionali presso l'Università Cattolica di Milano. L'occasione è stata offerta dall'incontro della serie "Serate del villaggio europeo" svoltosi il 12 marzo scorso presso la libreria Egea di via Bocconi 8 a Milano, durante il quale è stato presentato il volume di Cacace e Mammarella "La politica estera in Italia" (Laterza 2006).

Dal dibattito, moderato dal direttore della rappresentanza a Milano della Commissione Europea Roberto Santaniello, sono emerse alcune costanti che hanno caratterizzato la politica estera italiana nel corso degli ultimi 150 anni. Historia magistra vitae, dicevano gli antichi: ricordare ciò che è stato in passato aiuta a capire le situazioni attuali e può dare indicazioni per il futuro.

Secondo gli autori del libro, la politica estera italiana sconta da sempre alcuni difetti strutturali. In primo luogo l'Italia non ha mai potuto disporre di una forza armata in grado di supportare le velleità politiche del paese. Una carenza che si rivela, secondo Cacace, sin dalla III guerra di indipendenza, quando l'Italia perde tutte le battaglie, e riesce a conquistare il Veneto solo grazie alla Francia. Che dire poi delle ambizioni coloniali del paese, culminate con la sconfitta di Adua? "La prima guerra mondiale è una parentesi positiva, nella quale vinciamo – osserva Cacace –. Ma riusciamo anche in quel caso ad uscire sconfitti: al tavolo della pace, quando non riusciamo a conseguire i risultati che ci aspettavamo".

Cacace e Mammarella ravvisano un altro difetto strutturale della politica estera italiana: la scarsa preparazione, in talune circostanze, del personale diplomatico. "Nel periodo risorgimentale – precisa Cacace – il personale è di prim'ordine. Tutto è però molto spesso legato all'improvvisazione. Manca, rispetto ai nostri partner europei, una forte coscienza della nostra identità. Persino la politica di Cavour si può definire in certe intuizioni 'avventuristica', e spiega, forse, alcuni difetti della politica italiana nel corso dei decenni a seguire". Nell'attualità, secondo Mammarella, il personale diplomatico è inadeguato non tanto per la preparazione delle persone, formate a una scuola di illustre tradizione, quanto perché sarebbe necessaria una riforma che rendesse il servizio diplomatico in condizione di sostenere gli interessi economici e commerciali del paese.

Non solo limiti strutturali, tuttavia, ma anche atteggiamenti inveterati e ad attitudini culturali sfavorevoli hanno giocato negli anni a sfavore della nostra politica estera. È il caso, secondo Cacace, della costante tendenza italiana ad affidare ad altri la propria sicurezza e a non prendersi mai carico delle proprie responsabilità: sin dai tempi della Triplice Alleanza, quando il legame con l'Austria era oltretutto quanto mai innaturale, dal momento che proprio con questa l'Italia aveva le principali rivendicazioni, il Trentino Alto Adige. "Anche dopo la II guerra mondiale – continua Cacace – la reazione alla disfatta non fu riflettere sulla propria identità e fare tesoro della sconfitta, ma delegare a entità sovranazionali la propria sicurezza".

Inconsistenza tra mezzi e fini e velleitarismo: due caratteristiche costanti nella politica estera italiana, secondo Vittorio Emanuele Parsi. "Non solo talvolta i fini sono eccessivamente ambiziosi per il ruolo e le capacità modeste del paese – osserva il docente –, talaltra sono invece le ambizioni ad essere troppo miserabili in proporzione ai mezzi e alle capacità della nazione".

C'è un altro elemento cruciale che, secondo Parsi, caratterizza costantemente la politica estera italiana: il suo costante ondivagare, "come se l'adesione a un progetto di lungo respiro potesse essere sacrificata in cambio del raggiungimento di altri interessi". Una situazione che si riscontra nel corso di un po' tutta la storia del paese, dai tempi della Triplice alla non belligeranza entro l'asse nella temperie della II guerra mondiale, fino ai "giri di valzer" con l'Unione sovietica in piena guerra fredda. Si giunge, ricorda Parsi, sino al compiacimento per la rimozione dei missili a medio raggio dall'Europa e dall'Italia, "non capendo – osserva il professore della Cattolica– che la rimozione svalutava oggettivamente la rilevanza dell'Italia agli occhi dell'alleato americano, e non era che l'anticipazione di quello che sarebbe avvenuto per l'Europa nel suo complesso alla fine della guerra fredda: lo spostamento dell'epicentro del sistema dall'Europa ad altri scenari".

Alla base di questi atteggiamenti sembra esserci, secondo Parsi, anche una mancanza di consapevolezza del fatto che la politica internazionale seleziona: "Una frase celebre di Charles Tilly è che gli stati fanno la guerra, le guerre fanno gli stati: dal '600 in poi, le guerre hanno proceduto 'darwinianamente' a selezionare gli stati efficienti dagli stati inefficienti. In un mondo di guerre non esistono stati falliti vivi, ma solo stati che si rafforzano". La politica italiana sembra in particolare, secondo Parsi, avere difficoltà a concepire che la politica estera abbia al suo centro la questione ineludibile del potere. "Un portato di culture che sanno benissimo che cos'è il potere, ma lo camuffano costantemente dietro la retorica, come quella del servizio, e così via".

Del resto manca costantemente, aggiunge Mammarella, una riflessione sugli interessi nazionali: "difficile trovare letteratura sulla politica estera italiana. Prendiamo il caso della 'politica mediterranea': negli ultimi 60 anni è un po' come un fiume carsico, che ogni tanto compare o scompare a seconda di persone e interessi. In Italia manca una cultura della politica estera, che nasce anche nelle università".

Alla luce di queste considerazioni, che dire dunque dell'attualità?

Le sfide che attendono l'Italia sono molteplici e urgenti. Innanzitutto l'Afghanistan, "una missione che sta cambiando, perché la guerra è in corso e dobbiamo decidere se restare o no – osserva Cacace –. Il gioco, attualmente, non sembra però purtroppo riguardare tanto gli interessi nazionali, quanto piuttosto considerazioni di politica interna, piccoli partiti che devono mostrare di prendere decisioni autonome...". Tutto questo a discapito dell'interesse nazionale. Secondo Parsi, la classe politica italiana è oltretutto vittima di una visione vecchia dell'Europa e della politica internazionale: è vero che l'Europa è nata per organizzare e risolvere questioni interne a se stessa, ma questo non toglie che oggi la fida sia affrontare lo spazio esterno. "Se non saprà farlo, avrà esaurito la sua missione storica", commenta il docente.

Già, l'Europa. Secondo Parsi, la bocciatura della costituzione europea in paesi come la Francia è stata causata dal fatto che il progetto è stato percepito dalle popolazioni come 'calato dall'alto', senza una vera corrispondenza con gli interessi diffusi nelle società europee. "Il vero problema è stimolare la voglia di Europa dal basso – continua il docente –. In questo io credo che l'Italia abbia a disposizione un'opportunità incredibile: il corridoio cinque. È possibile fare in modo che gli abitanti di Torino allarghino naturalmente i loro interessi a quelli di Lione, e quelli di Verona a quelli di Lubiana, perché li portiamo a una distanza di un'ora di treno anziché di quattro. È semplice: l'avevano capito anche i Romani che sulle strade, è vero, passano gli eserciti, ma si costruisce anche un'appartenenza comune che parte dal basso. Faccio fatica a pensare che il corridoio 5 non sia un interesse bipartisan, un interesse nazionale al di sopra degli interessi particolari. È forse l'ultima opportunità che l'Italia può cogliere per restare agganciata all'Europa. Se non dovessimo coglierla, a pagare il prezzo maggiore non sarebbe tanto il nord, quanto il resto della penisola, centro e sud, che dall'Europa resterebbe completamente avulso".