La mondializzazione che non c'e'. E non c'e' stata
Fino a tre anni fa, autorevoli economisti paventavano il rischio che la globalizzazione si fosse spinta troppo in là. Oggi, altri autorevoli economisti paventano il rischio di de-globalizzazione. Ciò in quanto, in seguito alla recente crisi finanziaria, il principale indicatore di globalizzazione è arretrato in un paio di trimestri al livello di circa trent'anni fa. Mai voi ci credete che ci si possa de-globalizzare così tanto in così breve tempo?
Evidentemente, l'indicatore utilizzato è fuorviante. Esso misura, infatti, il rapporto tra scambi internazionali e valore aggiunto mondiale, due grandezze non facilmente comparabili perché la prima, a differenza della seconda, conta lo stesso valore aggiunto più volte (il problema non si porrebbe se al denominatore fosse misurato il valore complessivo degli scambi, compresi quelli intra-nazionali). Se, tuttavia, questo indicatore non è informativo, non possiamo certo utilizzarlo per quantificare i progressi della globalizzazione negli ultimi trent'anni. Ma allora cosa ci resta per argomentare che ci stiamo globalizzando, ossia che è in atto un processo di graduale integrazione dei mercati nazionali nell'economia mondiale? Potremmo argomentare che la globalizzazione è evidente dal fatto che i prodotti cinesi hanno invaso i nostri mercati. Ma questo non c'entra molto con la globalizzazione. L'invasione di prodotti cinesi è la conseguenza del fatto che un grande paese in via di sviluppo sta crescendo a tassi stellari, e lo fa utilizzando in modo aggressivo la sottovalutazione competitiva del tasso di cambio, un fenomeno storicamente non certo nuovo. Potremmo allora argomentare che i costi di commercio si sono ridotti, grazie alle politiche di liberalizzazione commerciale e alla drastica riduzione dei costi di telecomunicazione. Ma il ragionamento non convince.In primo luogo, la liberalizzazione commerciale ha solo lambito il comparto dei servizi, che in molti paesi rappresenta l'80% del pil.In secondo luogo, le barriere commerciali rappresentano solo una parte dei costi complessivi del commercio internazionale, in cui la quota preponderante è costituita invece dalle barriere naturali (in particolare quelle informative), che impediscono a partner potenziali e distanti di incontrarsi. In terzo luogo, la Information technologies revolution ha inciso poco su queste barriere perché, nelle relazioni commerciali, internet e cellulari sono per lo più complementari ai rapporti faccia-a-faccia (piuttosto che sostituti).Quarto, se anche i costi di commercio si sono ridotti, non è ovvio che si siano ridotti più degli altri costi di produzione. Stime recenti suggeriscono, al riguardo, che i costi complessivi di commercio tra i paesi avanzati siano pari a circa il 170% del valore medio dei beni commerciati tra questi paesi, una percentuale invero enorme ma a mio parere plausibile. Infine, e soprattutto, i dati mostrano una tendenza alla regionalizzazione, piuttosto che alla globalizzazione, degli scambi internazionali, e quindi che l'importanza della prossimità (geografica ed economica) nel commercio internazionale sia aumentata invece di ridursi nel tempo.La conseguenza di ciò è che i mercati dei beni sono ancora largamente segmentati da rilevanti barriere, per lo più naturali, che isolano i mercati locali dalla concorrenza internazionale. Ciò spiega perché, ancora oggi, sia possibile che lavoratori simili che svolgono mansioni simili in luoghi diversi percepiscano remunerazioni di ordini di grandezza diversi. La presenza di queste elevate barriere naturali può anche spiegare perché, negli ultimi decenni, la maggior parte dei governi abbia avuto il coraggio di liberalizzare il commercio dei beni ma non i flussi migratori, la cui intensità è ben inferiore a quella sperimentata dall'economia mondiale alla fine dell'800. La verità è che la globalizzazione non c'è e non ce la possiamo permettere, perché avrebbe effetti dirompenti sulla distribuzione del reddito e la stabilità sociale in molti paesi. Almeno finché il globo sarà popolato da miliardi di individui ancora troppo poveri.