La legge perde il nome, ma non cambia il reato
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Nicola Pecchiari (in alto) e Giuseppe Pogliani |
Il 3% del pil mondiale. Sono le risorse che, secondo uno studio della World Bank (Relazione Kauffman), sono sprecate ogni anno per fini corruttivi. Per la Commissione del Parlamento Europeo (La lotta contro la corruzione nell'UE, 2011), la dimensione del fenomeno si aggirerebbe, nella sola Unione, intorno ai 120 miliardi di euro.
Dalla metà degli anni Novanta le principali istituzioni sovranazionali e internazionali (Ocse, Fmi, Banca mondiale, Onu, Consiglio d'Europa ecc.) hanno elaborato una serie di strumenti giuridici per contrastare i fenomeni corruttivi sia interni che internazionali. Al tempo stesso sono evidenti gli sforzi compiuti dai vari Stati nell'adozione di nuove e più organiche discipline (ne sono esempio il Foreign Corrupts Practices Act statunitense ed il recente UK Bribery Act 2010).
In buona sostanza si è ormai ben consapevoli che la corruzione costituisca "in sé" una minaccia allo stato di diritto e al corretto ed efficiente svolgimento delle pratiche economiche indipendentemente dalla sua matrice.
Finalmente sembrava che anche nel nostro paese si fosse approdati, con la recente legge 190/2012, al recepimento di una organica normativa atta a riconoscere la nuova fattispecie di reato di corruzione privata, sull'onda della necessità di dare risposte all'opinione pubblica di uno stato che, stando alla scoraggiante statistica di Trasparency International, si colloca al 67° posto tra i 183 Paesi valutati sul rischio corruzione.
Siamo allora in presenza di una riforma complessiva del sistema anticorruzione capace di coniugare adeguati meccanismi di prevenzione a efficaci norme di repressione?
Purtroppo no. In tema di corruzione tra privati la nuova norma altro non è che una semplice modifica del testo del preesistente art. 2.635 c.c. sulla "infedeltà patrimoniale a seguito di dazione o promessa". In altri termini, il nostro legislatore non ha previsto un'ipotesi generale di corruzione nell'ambito di tutti i rapporti negoziali privati, ma la sua attenzione si è limitata a considerare il solo ambito societario specificando che esiste reato solo in presenza di un soggetto che compie od omette atti in violazione dei propri obblighi e che da ciò derivi direttamente un danno per la società cui questo appartiene. Non si tratta allora di corruzione fra privati bensì di un reato societario che identifica una violazione nei rapporti tra soggetto ed ente per cui opera.
A questo si deve ulteriormente aggiungere che sarà l'impresa stessa a giudicare se i comportamenti corruttivi debbano essere puniti o meno (mediante querela), mentre la procedibilità d'ufficio è ristretta all'ipotesi che da un fatto, che ovviamente abbia causato nocumento a una società, sia anche derivata una distorsione della concorrenza.
Insomma si è modificato il nome della legge ma non la sua vecchia sostanza e le conseguenze di ciò sono oltremodo chiare quando si pensa che, sul piano giudiziario, dal 2002 nessuna decisione ha affrontato l'argomento dell'infedeltà ex art. 2.635 c.c. per mancanza di materia del contendere. Non si vogliono fornire giudizi di valore in merito all'operato del legislatore in un tema così delicato che, comunque lo si voglia intendere, ha quale oggetto la libertà negoziale dei privati. Si auspica solo maggiore chiarezza e l'utilizzo di una terminologia più corretta utile a evitare fraintendimenti. Se l'intenzione, però, era effettivamente quella di introdurre una disciplina utile a contrastare il fenomeno pervasivo della corruzione privata attiva e passiva (considerato di per sé una minaccia allo stato di diritto e alla convivenza sociale) non si può che constatarne l'assoluto fallimento.