Contatti

La cruna dell'ago

Per dirla alla maniera della Bibbia, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che le lucide argomentazioni di un professore vadano al di là dell'esercitazione accademica. L'ipotesi che in Italia possa coagulare un consenso politico necessario perché - nelle forme di commissioni à la Sarkozy - si possano affrontare in modo serio ed efficace i grandi temi di riforma sociale e istituzionale non mi sembra una realistica prospettiva di breve/medio termine. In primo luogo, nella (sub)cultura politica italiana il ruolo dei politici-tecnici è perlopiù debole e marginale. Per diversi decenni la Repubblica è stata in mano a - più o meno dotati - politici di professione, fra l'eredità dei quali c'è anche una pretesa, e mai dimostrata, superiorità di un'azione politica pienamente indipendente. Ne sono testimonianza le voci bipartisan che predicano l'equazione fra la complessità del mondo attuale e la necessità di dedizione a tempo pieno all'attività politica. Più che un dialogo costruttivo, sembra che si sia consolidata un'idea "emergenziale" del ruolo del politico-tecnico, un "tecnico-chewing-gum", masticato per il tempo di una finanziaria o di una commissione ministeriale e gettato via. In secondo luogo - e mi riferisco al caso della commissione Attali - non c'è da aspettarsi che il tema dell'innovazione possa rapidamente entrare nell'agenda politica di Governo. Non è un tema che permette di parlare alla pancia degli elettori, non crea consenso fra categorie professionali, non crea dibattito sui media, non porta appalti e commesse (se non nella sua versione più materiale). In terzo luogo - e mi riferisco alla commissione Balladur - sembra che la cannibalizzazione della politica pura abbia investito anche le riforme istituzionali, e che il delirio collettivo di proporzionali e maggioritari, sbarramenti e premi, debba avvenire con la clava della governabilità in una mano e le stime dei voti raccolti nell'altra. Se anche le riforme istituzionali sono piegate agli interessi elettorali, e affermare la mancanza di senso dello Stato dei politici italiani ormai è chiacchiera da bar, non c'è da aspettarsi nessun "passo indietro" della politica. In quarto luogo, per poter mettere in cantiere delle (buone) riforme è necessaria una capacità di "sintesi politica", di composizione delle istanze sociali ad un'idea di bene comune. Niente di più lontano da quella somma di interessi di parte - e di breve periodo, anche - che è il grande equivoco della politica italiana contemporanea. Si prenda l'esempio del federalismo declinato come autonomia fiscale e tributaria. Che sintesi durevole e lungimirante si può domandare alla politica se in una stessa coalizione convivono il mantra del federalismo fiscale per l'elettore del nord e la promessa dell'abolizione dell'Ici, l'ossigeno delle casse degli ottomila comuni italiani? In ultimo luogo, è a livello culturale che l'Italia segna la distanza con l'esperienza francese delle commissioni Attali e Balladur. Se le loro cifre caratteristiche - l'approfondimento, la competenza, l'internazionalità, la riflessione, l'ascolto - non sono pacificamente accettati come valori sociali (e mi sento di affermare che non lo sono), perché chiedere ad un politico di farsene portatore, con uno sforzo che non fanno neanche i suoi elettori? Perché nel contrario, che il politico sia di esempio e guida alla società, e non la società al politico, non ci speriamo (quasi) più .