Il terzo settore che non sa valutare se stesso
Ho assistito alla presentazione di un libro sul terzo settore scritto da un noto esperto, a cui partecipavano altri due autorevoli ospiti oltre all'autore.
Anche in tale occasione, sono stati richiamati ben noti dibattiti: se il terzo settore debba collaborare con il settore pubblico (sussidiarietà), oppure muoversi in autonomia quando non addirittura in antagonismo rispetto a esso; se debba essere più o meno istituzionalizzato, e in che misura questo comporti rischi di eccessiva burocratizzazione; quanto il terzo settore giochi anche un ruolo di catalizzatore, nella catena della partecipazione e del concorso alle riforme dal basso (riformismo). Ma soprattutto quanto il settore pubblico riconosca il valore del terzo settore, aspetto rispetto al quale gli operatori spesso si lamentano. Da tempo gli studiosi sono impegnati sulla questione di come il terzo settore possa far riconoscere (e prima ancora misurare) il proprio valore, dal momento che esso è deputato non alla generazione di ricchezza economica, più facilmente rilevabile, bensì alla creazione di ricchezza meta-economica, risultato qualitativo più difficile da rilevare. Il riconoscimento del valore è questione sempre più importante per il terzo settore, dato che le risorse a esso destinate sono sottoposte a un crescente contingentamento. In occasione di quella presentazione, il tema mi è apparso in due nuove prospettive. In primo luogo: perché pensare che il settore pubblico non riconosca il valore del terzo settore, nel momento in cui le deleghe dal primo al secondo sono sempre più consistenti e ampie? La pubblica amministrazione (p.a.) sa bene che le organizzazioni del terzo settore sono in grado di mobilitare competenze, tempo e denaro, che altrimenti quasi certamente non verrebbero messe in campo, all'interno della pubblica amministrazione e neppure dell'impresa. E conosce molto bene il valore di tali risorse, per non parlare del valore dei bisogni assolti, e dunque dei problemi evitati anche sul piano politico. Sono invece le organizzazioni del terzo settore a essere spesso refrattarie alla definizione del valore da loro generato, ritenendo le misurazioni economiche troppo complesse e comunque riduttive, fuorvianti e strumentalizzabili. Mentre metodologie di misurazione originali e accreditate all'interno del settore altro non farebbero che enfatizzarne il valore, e dunque rafforzarne il potere, a partire dai rapporti con la p.a. In secondo luogo: il valore del terzo settore in relazione alla p.a. si è certamente modificato nel corso dei decenni in cui si è affermato e sviluppato. Da una prima fase caratterizzata da forti aspettative di efficacia ed efficienza legate alla delega, quando non di fatto dismissione, al non profit, si è passati (alla buon'ora!) a una seconda fase di ridimensionamento delle aspettative (per rispettare certi standard di efficacia non si possono ottenere chissà quali risultati di efficienza). E quindi a una terza fase, quella in cui oggi ci troviamo, di valutazione delle condizioni e delle opportunità in ciascuna circostanza. Insomma: non è che per caso, mentre il settore non profit ancora lamenta il fatto che la p.a. non percepisce il suo valore, e ne fa questioni di principi, nel frattempo la p.a. ha già prima enfatizzato, poi ridimensionato, e ora relativizzato quel valore?Un valore forse ben noto anche all'impresa privata, ogniqualvolta valuti l'utilità di un'azione filantropica ai fini della propria buona reputazione. E forse noto addirittura anche alla signora Maria, quando si trovi a individuare l'associazione a cui destinare qualche euro in cambio di uno scalino verso il paradiso.Rimane il sospetto che l'unico poco capace di misurare e di rivendicare il proprio valore sia proprio il terzo settore.