Il processo penale che verrà
Di riforma della giustizia penale si è molto parlato negli ultimi tempi, e certamente si parlerà ancora nel 2010, anno nel quale, a dar retta agli annunci, si vareranno modifiche sia all'assetto ordinamentale che a quello processuale che ristabiliranno quelle condizioni di imparzialità del giudice che, oggi, non sarebbero adeguatamente garantite.
L'obiettivo sarà il pubblico ministero. Dopo averne già riorganizzato gli uffici secondo rigide gerarchie, per meglio controllare l'iniziativa dei singoli sostituti procuratori, si opererà nel senso di sottrarre loro autonomia nello svolgimento delle indagini, a favore di una maggiore indipendenza d'azione della polizia giudiziaria: solo quando questa avrà "istruito" debitamente la notizia di reato e l'avrà inoltrata alla Procura, il magistrato potrà procedere. Allo stesso tempo, si elaborerà un più complesso disegno volto a separare le carriere dei giudici da quelle degli inquirenti, per impedire che chi ha svolto la funzione giudicante possa poi diventare pubblico ministero, e soprattutto viceversa. La solidarietà che l'appartenenza alla stessa "famiglia" genera tra i componenti è tale, si sostiene, da non rendere sereno ed obiettivo il giudizio. Sullo sfondo, sembra che dovremo assistere a una molteplicità di ulteriori micro-operazioni (una vera e organica riforma non sembra infatti interessare a nessuno), convergenti sullo stesso bersaglio: modifiche alla disciplina delle intercettazioni, a quella dei procedimenti speciali, delle impugnazioni, fino alla vagheggiata "durata ragionevole dei processi" (in realtà: termini molto brevi per processi molto lunghi, con l'inevitabile mannaia della prescrizione). Insomma, strumenti diversi (che si tratti del depotenziamento dei mezzi di ricerca della prova, o del moltiplicarsi delle vie d'uscita dal processo) per raggiungere lo stesso traguardo: sottrarre l'imputato alla persecuzione del magistrato dell'accusa, affidandolo alle cure di un giudice finalmente liberato dalla soggezione per il collega. E pensare, per inciso, che il motto del riformatore era "dalla parte di Abele", e che sulla severità della risposta dello stato al crimine, nel segno della sicurezza dei cittadini, si sentono continuamente proclami. Ma il paradosso è che, alla fine, anche Caino, apparentemente favorito dall'infiacchimento del suo avversario, finirà per pagare un prezzo altissimo: un pubblico ministero sempre più isolato e privato di strumenti di indagine, in un processo che avrà visto sbiadire fino a divenire invisibile la sua funzione cognitiva, per diventare una corsa ad ostacoli contro il tempo, otterrà una deprecabile, quanto inevitabile rivincita. Con una sorta di inconscia compensazione, ciò che l'accusatore avrà perduto sarà alla fine inesorabilmente recuperato dal giudice. L'aggressività sedata del primo diverrà inconsapevole irrequietezza dell'altro, tradotta in predisposizione d'animo al giudizio sommario, in tentazione irresistibile alla condanna anche di fronte al dubbio, anche quando l'onere della prova non sarà stato soddisfatto dall'accusa. Del resto, i sintomi di questo slittamento di posizione sono già (e non da oggi) visibili. Basti pensare all'enorme aumento delle pronunce di inammissibilità dei ricorsi, che ormai servono più ad impedire la prescrizione dei reati, che a sanzionare le impugnazioni davvero improponibili; o alla posizione assunta dalla giurisprudenza di fronte al problema dell'iniziativa probatoria del giudice: al pubblico ministero inerte, che non si attiva per dimostrare la fondatezza dell'imputazione, viene in soccorso il giudice, libero di muoversi al suo posto sul terreno della prova. Con buona pace, inutile dire, dell'agognata imparzialità.