Il futuro dell'Unione e' nel suo passato
Cosa distingue il commercio internazionale da un mero «espediente disperato per preservare l'occupazione interna forzando le vendite di merci sui mercati stranieri e restringendo gli acquisti»? L'espressione è di Keynes, ma la questione attraversa tutta la storia del pensiero economico e coincide con la distinzione fra competizione libera e mercantilismo. La risposta è semplice: la differenza passa per il sistema monetario adottato e la sua capacità di prevenire gli squilibri commerciali.
Il Gold standard implicava, almeno teoricamente nella formulazione di Hume, sia una deflazione nei paesi in deficit sia un'inflazione nei paesi in surplus. La simmetria del meccanismo rifletteva una verità contabile: non solo i deficit ma anche i surplus sono squilibri.
È stato fatto notare che tale verità non è stata considerata all'atto della costruzione dell'euro, e che proprio l'euro ha reso possibile l'accumulazione di surplus e deficit strutturali.
➜ Gli effetti del libero scambio pre crisi
Tale accumulazione è stata coperta dal funzionamento dei mercati finanziari che hanno provveduto, fino alla crisi, a riciclare i surplus del nord Europa con investimenti a breve termine verso il sud. L'ipotesi - il dogma - che reggeva questa costruzione traballante è che essi avrebbero prodotto una convergenza delle economie dei paesi membri, che avrebbe riequilibrato i conti commerciali. Il suo solo effetto, almeno fino alla crisi, è consistito nell'uniformazione dei tassi d'interesse. Un vantaggio per i paesi in deficit, certo, ma ben compensato per i prestatori dalla cancellazione del rischio di cambio.
L'impossibilità di svalutazioni competitive da parte dei paesi in deficit ha reso possibile un'accumulazione di surplus negli altri paesi non esposti al rischio di una rivalutazione. In nome del libero scambio si è riprodotta una dinamica mercantilista da manuale.
➜ L'esempio dell'unione europea
dei pagamenti
Dopo la crisi, la stessa logica mercantilista è stata proposta, o meglio imposta, ai paesi in deficit e a corto di finanziamenti: a una svalutazione impraticabile con la moneta unica è stata sostituita la deflazione salariale, non compensata da un'inflazione salariale nei paesi in surplus.
Il risultato? Al netto dell'attuale ripresina, l'intera zona euro è prigioniera di una depressione della domanda che porta a un riequilibrio delle bilance commerciali per via di una compressione delle importazioni e non di un'espansione delle esportazioni.
Certo, non tutti hanno fatto ancora le «necessarie riforme strutturali», ma forse qualche parte l'ha anche il nostro sistema monetario. Lo si può apprezzare per differenza, pensando a un'altra forma di unione monetaria europea: l'Unione europea dei pagamenti. Voluta da Triffin e presieduta da Carli, la Uep funzionò dal 1950 al 1958 come una camera di compensazione per i paesi europei. Che mantennero le loro valute, e i controlli dei movimenti di capitali, utilizzando il dollaro-oro come unità di conto per un sistema di pagamenti multilaterali, in cui ogni paese utilizzava i surplus ottenuti per colmare i suoi deficit. Un sistema di disincentivi dissuadeva dall'accumulazione sia di deficit sia di surplus. In quegli anni il commercio intraeuropeo crebbe a tassi cinesi, mentre con esso crescevano anche le economie nazionali.
Morale della storia: i surplus accumulati devono essere decumulati. Ma tutto dipende da come.
Si può sperare che, dopo la deflazione, i mercati finanziari riprendano il loro ruolo pre-crisi. Ma è una speranza economicamente sensata? Si può mirare un'unione fiscale che proceda a una perequazione fra stati federati. Ma è un obiettivo politico realistico? Si può tornare a valute nazionali in competizione. Ma con quali effetti collaterali, economici e politici?
Oppure si possono moderare le pretese e riformare l'unione monetaria in modo che prevenga la formazione di squilibri e sostenga la crescita degli scambi.
La storia d'Europa potrebbe aiutarci a trovare qualche indicazione in questo senso.