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Il cibo made in Italy piace, ma se è doc è meglio

, di Andrea Celauro
Il settore agroalimentare, tra le icone dell’Italia nel mondo, tiene ma non esalta: colpa della poca valorizzazione delle tipicità e di un sistema industriale troppo disperso sul territorio

All’estero è percepito come sinonimo di qualità ed è una delle punte di diamante della nostra immagine. Eppure l’agroalimentare italiano, per quanto riconoscibile, stenta a guadagnare quote del mercato globale. E’ una produzione da difendere, caratterizzata da una generica dispersione sul territorio, salvo poche eccezioni, e che necessita di valorizzare le proprie specificità.

E’ quanto emerge dalla ricerca condotta da Lanfranco Senn e Elisa Bianchi, rispettivamente direttore e ricercatrice del Centro di Economia regionale, dei trasporti e del turismo (Certet) della Bocconi, e pubblicata nel secondo Rapporto dell’Osservatorio sull’attrattività del sistema paese Bocconi / Fondazione Italiana Accenture. Ricostruendo la filiera di alcuni comparti produttivi dell’agroalimentare rispetto alla loro localizzazione sul territorio e analizzandone la rilevanza a livello internazionale, Senn e Bianchi ne hanno evidenziato punti di forza e debolezze.

“Questa filiera è esempio di un settore che pesa poco sull’export nazionale e con un mercato a bassa crescita internazionale”, chiarisce Senn. “In questo contesto si aprono spazi per strategie di nicchia anche molto redditizie, basate sulla valorizzazione di marchi e prodotti. Strategia che però ha il suo punto debole nel limite fisico degli ambiti di produzione, a meno di sviluppare marchi ombrello o linee di prodotti industriali accanto a quelli di qualità”.

Il settore, 37 mila imprese per 105 miliardi di euro di fatturato nel 2004 (+1,9% rispetto al 2003), mostra una buona tenuta sul versante della produzione, in controtendenza rispetto all’andamento complessivo dell’economia italiana, ma registra nell’export risultati inferiori alle sue potenzialità: l’incidenza delle esportazioni sul reddito prodotto è il 14%, rispetto al 18% della media europea e al 22% dell’export di beni e servizi italiani. Come migliorare l’attrattività dei territori di produzione e aumentare la quota di mercato a livello globale?

Ad eccezione di alcune realtà, una per tutte la food valley Parma-Ravenna-Reggio Emilia-Forlì, l’agroalimentare non è un settore particolarmente concentrato sul territorio: nelle prime venti province si cumula infatti solo il 48% degli addetti al settore.

“Per i territori forti come la food valley”, spiega Elisa Bianchi, “dove è gia alto il livello di specializzazione e i vantaggi di agglomerazione, sembra opportuno aumentare l’impatto internazionale dei marchi e localizzare strutture in grado di capitalizzare conoscenze di eccellenza sui processi e i prodotti”. Bisogna inoltre sviluppare la produzione industriale dei prodotti tipici, allargandone quindi la commercializzazione, senza sovrapporli a quelli artigianali, la cui specificità deve essere mantenuta e promossa dall’adozione di marchi registrati.

Per quanto riguarda poi i settori nei quali la polverizzazione sul territorio è più marcata, soprattutto nel Meridione, sono necessarie una politica di agglomerazione delle aziende minori e un’azione di tutela e promozione delle produzioni locali. In questo senso, “la possibilità di formare i clienti stranieri sulle caratteristiche dei prodotti”, sottolinea Bianchi, “per migliorare l’apprezzamento della produzione e disincentivare l’imitazione. Questo significa anche fare sistema con la ricettività e attrarre investimenti sotto forma di turismo di affari e associazioni di categoria straniere”.

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