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Il caso Montecatini

, di Franco Amatori
Successo e fallimento, due facce di una stessa medaglia

È inevitabile che un'impresa, dopo decenni di leadership in un settore particolarmente significativo, incorra in periodi di declino relativo o addirittura assoluto. In questi casi si evoca uno spirito originario, la filosofia dei bei tempi: è sufficiente ritornare alle origini per ritrovare lo slancio necessario. Tuttavia se si guarda alla storia di un'azienda più da vicino, spesso si scopre che una ricetta simile è di nessuna utilità, sia perché un modello di comportamento di un'impresa, la sua strategia e la sua struttura possono essere validi in determinati periodi mentre in un contesto diverso devono necessariamente essere soggetti a cambiamento, sia in quanto non di rado negli ingredienti di un grande successo sono presenti i germi del fallimento.

È questo il caso della Montecatini, della cui cattiva performance nel secondo dopo guerra ha risentito con gravi conseguenze un settore decisivo per la consistenza dell'apparato industriale del paese, quale quello chimico. Eppure la Montecatini poteva essere definita nel 1938 a cinquant'anni dalla fondazione una vera e propria potenza dell'economia italiana. I dipendenti erano quasi 60.000, il consumo di energia elettrica raggiungeva la decima parte del totale nazionale, l'egemonia nelle produzioni tradizionali, le piriti, i perfosfati, i concimi azotati, era indiscussa, mentre senz'altro considerevole era la presenza nei nuovi campi degli intermedi, dei coloranti e dell'alluminio. In definitiva, alla vigilia della seconda guerra mondiale, il prestigio dell'azienda era al suo apice. Guido Donegani, da quasi trent'anni alla guida dell'impresa, era considerato fra i pochissimi che dominavano completamente i vari rami dell'industria, mentre l'acquisto delle azioni Montecatini veniva paragonato all'investimento in titoli di stato. Ma come si era arrivati così in alto?

Si era dovuto sottoscrivere un "patto con il diavolo", ovvero con il governo fascista che sarà duramente pagato dopo la guerra. In cambio di interventi protezionistici nel settore dei fertilizzanti, la Montecatini era diventata un braccio della politica economica fascista per una serie di salvataggi, una sorta di Iri del settore chimico-minerario. In definitiva, alla vigilia della guerra, la Montecatini apparentemente è un gigante, in realtà un gigante dai piedi di argilla in quanto "mostruosa" conglomerata chimico-mineraria che può sopravvivere solo nel clima artificiale del tardo fascismo. Il guaio è che dopo la guerra i successori di Donegani non pongono seriamente in discussione questo modello di impresa mentre si afferma prepotentemente un nuovo paradigma tecnologico che esige una totale dedizione: il petrolchimico. La Montecatini coglie al volo la novità e, nel 1950, a Ferrara costruisce il primo stabilimento petrolchimico d'Europa ma, gravata dalla zavorra accumulata negli anni '30, può spendere "solo" 20 miliardi. Nel 1956 a Ravenna Enrico Mattei ne costruisce uno che vale tre volte tanto, un impianto allo stato dell'arte che toglie alla Montecatini il predominio nel suo settore centrale: i fertilizzanti. La Montecatini, che si avvale a questo punto della collaborazione di un grande scienziato, Giulio Natta, vuole replicare con la costruzione di un impianto che possa sfruttare le economie di scala e di diversificazione consentite dalla più avanzata tecnologia. Tuttavia – siamo alla fine degli anni '50 – la frontiera tecnologica del settore è molto mobile e i costi risultano imprevisti e crescenti. È questa l'origine della fusione subalterna con la Edison che dà vita a Montedison, un disastro per la Montecatini e per la chimica e l'economia italiana.