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Il bio italiano che vince all'estero

, di Vitaliano Fiorillo - docente di agribusiness
Diversita' culturali, climatiche e territoriali fanno dell'Italia un campione delle specialty e il sesto produttore al mondo. Puo' essere questo il modello vincente per l'agroalimentare?

L'Italia è il sesto paese produttore di biologico nel mondo, il 4° per tasso di crescita del mercato, un piazzamento che rimane ancora oggi difficile da spiegare, in un paese duramente segnato da un'economia in contrazione e una domanda interna asfittica. Quando si guardano le cifre del bio, soprattutto per chi ha sempre guardato al settore come una nicchia, è difficile non rimanere stupiti. Mentre la spesa alimentare si riduce costantemente in media del 1% ogni anno e la domanda interna di prodotti premium subisce continue fluttuazioni anche molto gravi, il mercato del biologico in Italia cresce costantemente da oltre 10 anni (+220% in 10 anni). Cresce più del vino, nostro fiore all'occhiello negli export, che anzi ha perso molto dall'inizio della crisi, e cresce più dei prodotti dop e igp. Dei circa 3 miliardi di euro del mercato del biologico italiano, un terzo viene dalle esportazioni, indirizzate soprattutto ai paesi del centro-nord Europa, con la Germania in testa.
Ma cos'ha il bio che gli altri prodotti non hanno? E perché il biologico italiano piace così tanto anche all'estero?
Come spesso accade, è difficile determinare con assoluta certezza quali fattori abbiano contribuito a un tale successo del bio e come questi fattori si siano rafforzati l'un l'altro. Una spinta considerevole è venuta dai consumatori che negli ultimi anni stanno evolvendo rapidamente. Safety first, si direbbe in inglese, e la sicurezza è certamente uno dei driver principali. Nonostante il cibo non sia mai stato sicuro e sano come lo è oggi, sembra che i consumatori siano sempre più critici e incerti sulla qualità e la sicurezza degli alimenti che acquistano. Questo soprattutto a seguito dei numerosi scandali sulla sicurezza delle filiere produttive a cui abbiamo assistito recentemente, non ultimo lo scandalo della carne di cavallo. Scandali questi che hanno eroso la fiducia del consumatore nei grandi brand e lo hanno spinto sempre più ad avvicinarsi alla fonte, muovendosi su filiere parallele alla ricerca del contatto diretto con il produttore. Si moltiplicano così i mercatini agricoli, i gruppi di acquisto solidale e le vendite dei prodotti freschi direttamente presso l'azienda agricola.
Il consumatore si evolve, si informa, partecipa alla produzione, cambiando il concetto di qualità. Se negli ultimi 60 anni la qualità era determinata dalla scelta economica razionale, oggi la qualità è più funzione del radicamento, cioè di quanto un alimento venga percepito come radicato a un tessuto culturale e sociale unico. Questo fenomeno è diffuso in tutti i paesi occidentali, dove la sovrabbondanza dell'offerta e il cibo commoditizzato sono sempre meno apprezzati da fasce sempre più ampie di consumatori.
I cambiamenti in atto nei consumatori certo giustificano una domanda di bio sostenuta, ma non bastano a spiegare perché l'Italia sia il primo esportatore in Europa e uno dei principali mercati nel mondo. Il segreto del successo del bio italiano è infatti ancor più da ricercarsi nelle caratteristiche dell'offerta.
Per quanto infatti la modernizzazione dell'agricoltura avvenuta a partire dagli anni 50 abbia permesso al paese di svilupparsi, essa mal si addice alle caratteristiche del nostro paese. Laddove storia, cultura e specificità ambientali erano meno marcate, l'agricoltura industriale ha prosperato senza ostacoli, ma non in Italia dove la piccola dimensione delle aziende agricole ha condizionato lo sviluppo del settore, esponendo i piccoli agricoltori alle fluttuazioni di prezzo delle commodities sul mercato globale. Con l'avvento del biologico, molte aziende hanno invece potuto differenziare la produzione con prodotti ad alto valore aggiunto, abbandonando le colture intensive come i cereali. Il biologico ha così permesso di valorizzare i microclimi e i prodotti una volta esclusi dalla produzione di massa. Vengono così recuperate centinaia di varietà di mele, razze animali rustiche non adatte alla produzione industriale e numerosi altri prodotti ben esemplificati dai presidi Slowfood. L'italia non è un paese per commodities e il bio è il prodotto specialty per eccellenza.
Poiché il bio è considerato un prodotto specialty in tutta Europa, è facile capire come l'Italia, offrendo un'amplissima varietà, abbia potuto ritagliarsi un ruolo di primo piano nelle esportazioni. Nessun altro Paese in Europa gode delle caratteristiche climatiche e culturali necessarie per offrire tale diversità dell'offerta. Da sottolineare che, proprio per le maggiori abilità e sensibilità richieste all'agricoltore per coltivare biologico (senza l'aiuto e la standardizzazione portata da agrochimici e fertilizzanti), sono proprio le specificità culturali a favorire il biologico italiano.
È difficile che il biologico diventi il modello dominante, ma se così fosse l'Italia potrebbe diventare il serbatoio delle specialties europee, superando la trappola della commoditizzazione che ha posto il nostro settore agroalimentare in una competizione che non può vincere.