I sindacati, le union e il modello Marchionne
Nel 1971, il Parlamento del Regno Unito, in vista della adesione del paese alle Comunità europee, adottò un provvedimento legislativo che mirava ad allineare le relazioni industriali col modello continentale: salvo diversa specificazione, un accordo collettivo avrebbe avuto efficacia contrattuale e non più di gentlemen's agreement , come da sempre avveniva in quella tradizione sindacale. Pochi anni dopo, quasi tutti gli accordi collettivi avevano optato per il sistema tradizionale rendendo la riforma lettera morta e inducendo il legislatore a tornare sui propri passi.
Da quella esperienza, il 'padre' del diritto sindacale inglese, Otto Kahn Freund, trasse una lezione ancora oggi attuale: il semplice innesto di una legge o di un modello normativo in un altro ordinamento giuridico può provocare 'crisi di rigetto', tanto quanto il trapianto di un organo non compatibile in un corpo umano. Tentare di ignorare le specificità economiche, politiche e giuridiche dei sistemi di relazioni industriali, cercando di modificarli per via legislativa sulla base di un prototipo regolamentare magari funzionante in altri Paesi è spesso inutile, quando non dannoso.Le recenti vicende sindacali negli stabilimenti Fiat hanno rimesso al centro del dibattito politico e giornalistico il sistema sindacale italiano, un sistema caratterizzato, nel settore privato, da un'ampia informalità e dall'assenza di regole per misurare la rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori.L' assenza di tali regole non è frutto della dimenticanza ma di un preciso scambio tra le tre storiche confederazioni. Cisl e Uil rompevano l'isolamento, figlio degli anni più duri della guerra fredda, della Cgil e quest'ultima, storicamente più radicata e numericamente consistente, riconosceva loro pari rappresentatività. Inevitabile che un simile 'patto' fosse basato sulla necessità di un agire comune nel segno dell'unanimità.Il compromesso ha funzionato, con alterne vicende, per più di un trentennio consegnandoci un sistema di relazioni sindacali complesso, ma in ultima analisi funzionante che ha dato buona prova di sé in passaggi cruciali ma che scricchiola oggi alla luce della politica industriale della Fiat di Sergio Marchionne.Quest'ultima ha scatenato il consueto teatro di demonizzatori e agiografi: da più parti viene segnalato il 'rischio' o l' 'opportunità' di estendere il 'modello Marchionne' nel resto della realtà produttiva italiana.Si invoca poi una legge che regoli le relazioni industriali, introducendo meccanismi di misurazione della rappresentatività sindacale. Nella vulgata questo dovrebbe portare all'arrivo in Italia del modello Usa, nel quale un solo ente rappresentante i lavoratori di un'unità produttiva, eletto o designato dagli stessi, avrebbe diritto a negoziare contratti collettivi: Marchionne ha capito che quello è il modello adatto per affrontare la globalizzazione, tanto vale fare come lui!Una simile visione pecca forse di un'eccessiva semplificazione.Innanzitutto non è vero che il modello Marchionne sia il modello statunitense: i sindacati firmatari degli accordi di Pomigliano e Mirafiori sono cinque e non vi è stata alcuna designazione di un unico agente negoziale da parte dei lavoratori. Quegli accordi sono figli della mancata regolazione, finora unanimemente condivisa, del sistema di relazioni industriali italiano.Quel che accomuna il modello Marchionne al sistema americano è invece la centralità attribuita al contratto collettivo aziendale.La contrattazione collettiva aziendale presenta sicuramente degli aspetti positivi nella sua maggiore adattabilità alle esigenze delle singole realtà produttive ma porta con sé una controindicazione: il rischio di un eccessivo particolarismo del movimento sindacale il cui baricentro si concentrerebbe, molto più di adesso, in azienda.Un sindacato eccessivamente aziendalista potrebbe forse 'spuntare' migliori condizioni di lavoro, ove e quando ne avesse il potere contrattuale. Molto minore sarebbe però la capacità di farsi carico di obiettivi di interesse generale quali la lotta all'inflazione, al lavoro sommerso o all'eccessiva precarietà.Dopo decenni di retorica su insider sovratutelati e outsider sottoprotetti il rischio è adottare un modello nel quale il sindacato non ha alcun interesse ad occuparsi dei lavoratori non sindacalizzati e più deboli: uno degli storici problemi delle union americane è quello di focalizzarsi eccessivamente sui lavoratori più 'forti'!Meglio forse procedere tenendo presente la lezione di Kahn Freund: le relazioni industriali possono essere modificate ma tenendo presenti le specificità del sistema produttivo italiano (ad esempio la predominanza di piccole imprese, dove la contrattazione aziendale rimane utopia). Soprattutto, è bene evitare un'eccessiva ingerenza delle forze politiche a riguardo, specie se si tendesse – come è legittimo temere dopo quasi dieci anni di politica governativa giocata sull'inasprimento delle divisioni sindacali – all'emarginazione del sindacato (tuttora) maggiormente rappresentativo nel paese.