I pirati del Mar Rosso, l'ultima sfida al diritto internazionale
L'umanità è segnata dai corsi e ricorsi storici. La pirateria che sembrava fenomeno del passato (ricordate Salgari?) è ritornata a preoccupare i paesi di tutto il mondo. Alcune tra le più importanti vie di navigazione di importanza vitale sono in pericolo. Per di più, nonostante l'impegno condiviso di tutti gli stati e sancito da varie delibere del Consiglio di sicurezza Onu, una risposta efficace stenta a materializzarsi. Giovanotti scalzi su gommoni sequestrano impunemente navi cariche di armi, derrate, magari anche passeggeri, chiedono e spesso ottengono riscatti milionari. Se Pompeo Magno riuscì in poco tempo a liberare i mari dell'Asia Minore dai pirati che la infestavano e bloccavano i ricchi commerci di Roma, se i marines americani hanno iscritto nel loro inno il ricordo dello sbarco a Tripoli poco dopo l'indipendenza americana per ripulire l'Atlantico dai pirati barbareschi, è mai possibile che le flotte militari del XXI secolo si rivelino impotenti? Eppure la pirateria è uno dei pochissimi fenomeni criminosi internazionali su cui sussiste da sempre la giurisdizione universale, il diritto, forse addirittura il dovere di qualsiasi paese di intervenire per reprimerla.
Il fatto è che la stessa globalizzazione che dovrebbe portare cooperazione e sviluppo pacifico crea gli spazi per il crimine transnazionale e rende a volte difficile una risposta efficace. La prima causa della pirateria nel Mar Rosso e al largo della Somalia è naturalmente la situazione di anarchia che regna nell'ex-colonia italiana. Dopo gli insuccessi degli interventi diretti di alcuni anni fa per portare ordine, si cerca di risolvere la questione per interposta persona (aiuti e interventi dell'Unione africana) ma con scarsa efficacia. Si punta più che altro a contenere la situazione all'ambito locale, con un occhio ad Al Qaeda e un altro al flusso dei profughi che ne nasce fin sulle nostre coste. Proprio la globalizzazione consente a bande private di occupare territori, ottenere equipaggiamenti leggeri che possono sfidare le grandi navi mercantili e persino militari, mentre la multinazionale del crimine ricicla i riscatti in paesi sicuri. La stessa globalizzazione spinge gli armatori e i proprietari delle merci a privilegiare la rapidità dei traffici, a ricorrere alle assicurazioni e ad intermediari poco trasparenti se il guaio si verifica per riscattare nave, carico ed equipaggio.Una risposta si è però organizzata su più fronti. Di fatto le navi sono ora protette, con armi, vigilanti privati o anche militari, nonostante lo scarso entusiasmo iniziale verso il superamento della tradizionale distinzione tra mercantile e nave armata che ciò comporta. Le navi di varie marinerie che pattugliano la zona riescono ora a prevenire molti dirottamenti e a volte a catturare i responsabili. Resta il problema di non poco conto di cosa fare dei pirati catturati. C'è poco entusiasmo di portarseli a casa per giudicarli e metterli (anche loro!) nelle patrie galere, malgrado le normative che presentavano lacune siano state emendate in questo senso. Da ultimo l'Italia a fine 2008 ha dato competenza penale al tribunale di Roma per giudicare casi di pirateria ovunque avvenuti. L'Unione europea ha battuto un'altra via concludendo nel marzo 2009 un accordo con il Kenya, che ha accettato senza entusiasmo di assumersi l'onere di prendere in consegna e giudicare i pirati catturati dalle navi europee. Non è più il tempo in cui i pirati catturati venivano impiccati al pennone o dati in pasto agli squali. Il doveroso rispetto dei diritti umani fondamentali rischia di frustrare la repressione e indica così nella prevenzione la via da preferire.