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I derivati non sono il male

, di Cesare Conti - professore associato di finanza aziendale alla Bocconi
La loro pessima reputazione deriva più da come sono stati erogati che dalla loro essenza. Se usati a copertura dei rischi finanziari, funzionano

Da qualche anno i prodotti derivati godono di pessima fama. La loro reputazione è crollata ulteriormente in occasione della recente e violenta crisi dei mercati finanziari. Ciò contrasta con l'apprezzamento riconosciuto dalla teoria della finanza ai derivati utilizzati con finalità di copertura dei rischi finanziari. Diverse verifiche empiriche testimoniano infatti una relazione positiva tra utilizzo dei derivati e valore d'impresa. Proprio quest'ultima relazione verrà approfondita in Bocconi il prossimo 11 novembre dal Prof. Renè Stulz, uno dei massimi esperti mondiali della materia.

La notevole distanza tra opinione pubblica ed evidenze empiriche non può non colpire. La spiegazione più plausibile è che l'opinione pubblica abbia attribuito ai prodotti derivati una responsabilità che essi non hanno. Nonostante qualche eccesso dell'ingegneria finanziaria, infatti, i principali problemi che si sono verificati con i derivati non sono attribuibili tanto ai prodotti in sé e per sé. Quanto piuttosto alle modalità con cui le banche li hanno erogati ed alle carenze nella governance e nella disclosure delle imprese/enti che li hanno utilizzati. Si tratterebbe pertanto di problemi che investono sia la regolamentazione del sistema sia il comportamento di banche/imprese/enti. Ciascun aspetto merita un breve chiarimento.

Quanto alla regolamentazione è evidente che dal 2005 ad oggi si è passati dal "far west" allo "stato di diritto" dei derivati. In particolare la Mifid ha indotto le banche ad essere più trasparenti e competitive nel pricing dei derivati, limitando così gli effetti pericolosi dell'asimmetria di capacità di pricing dei derivati tra banche e imprese/enti. Allo stesso tempo, i principi contabili internazionali (Ias 39 e Ifrs 7) e il progressivo recepimento delle direttive comunitarie hanno dato molta visibilità contabile ai prodotti derivati, stimolando le imprese ad affinare la loro risk governance e a migliorare la loro risk disclosure. Misure analoghe hanno più recentemente riguardato anche l'utilizzo dei derivati da parte degli enti, come ad esempio la nostra legge 133 del 6 agosto scorso.

L'impatto del rapido cambiamento della regolamentazione sul comportamento di banche/imprese/enti non è privo di ombre. Se la Mifid ha posto un freno al comportamento opportunistico delle banche, l'introduzione dei nuovi princìpi contabili ha sancito un brusco passaggio da un eccesso all'altro nel comportamento delle imprese, che sono passate da un utilizzo eccessivo e poco consapevole dei derivati ad un approccio al risk management che Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve, ha definito "imprudente". Ed è imprudente poiché induce il management a non utilizzare i prodotti derivati anche quando essi sarebbero economicamente opportuni.

Questo comportamento imprudente trae origine soprattutto da due motivi. Il primo è identificabile nella nuova asimmetria di visibilità contabile tra i derivati, ora molto evidenti nel bilancio, e l'esposizione a rischio che essi intenderebbero coprire, che rimane molto opaca. Il risultato è che tanto il board quanto il lettore del bilancio potrebbero erroneamente convincersi che il management utilizza i derivati con finalità speculativa, anche quando non è vero. Il secondo motivo è riconducibile agli impegnativi adempimenti amministrativi imposti alle imprese per dimostrare la finalità di copertura dei derivati. La quale finalità, a sua volta, è il presupposto per applicare apposite regole contabili di hedge accounting che permettono di usare i derivati di copertura limitando l'impatto delle variazioni del loro fair value sull'utile di bilancio. In sintesi, il management che si copre dai rischi dovrebbe lavorare di più e rischiare di essere comunque scambiato per un ... "trader". Se a ciò si aggiunge l'attuale feroce avversione mediatica ai derivati, perché mai il management dovrebbe ricorrere alle coperture?

Per non incorrere in questo pericoloso circolo vizioso, è necessario un comportamento virtuoso da parte delle imprese/enti, volto ad affinare la risk governance e la risk disclosure. A tal fine, un punto imprescindibile è la messa a fuoco dei drivers economici che giustificano le coperture. Al riguardo le evidenze empiriche che riguardano le imprese forniscono utili consigli: dovrebbero coprirsi di più le imprese in crescita che sono meno liquide e più indebitate. Il motivo è semplice. Se si verificassero perdite inattese, tali imprese non potrebbero contare sulla liquidità e/o su nuovo ricorso al debito, per cui potrebbero essere costrette a rinunciare alle loro buone opportunità di crescita. La recente volatilità dei mercati ci ricorda che le perdite inattese possono facilmente verificarsi. Inoltre, l'attuale contesto di recessione globale rende le coperture ancora più importanti. Non tanto per proteggere la crescita, che ad oggi langue. Ma addirittura per consentire alle imprese di sopravvivere in presenza di margini reddituali risicati e di un feroce razionamento del capitale, razionamento che penalizzarà proprio le imprese poco liquide, molto indebitate e troppo rischiose.