Giappone, che sviluppo!
La porta dello studio di Carlo Filippini, docente di economia dello sviluppo alla Bocconi, è off limits. Un senso del pudore ipersensibile al disordine la rende invalicabile agli estranei. In realtà la stanza è perfettamente ordinata, ma quella di Filippini è una forma di cortesia estrema, quasi orientale, verrebbe da dire, prima ancora di sapere che il docente è proprio uno dei massimi esperti di economia giapponese, premiato dall'ambasciatore nipponico con l'Ordine del Sol levante per i suoi studi trentennali. Un interesse professionale che ne ha conquistato i modi, la cultura, e anche un po' i gusti, come dimostrano l'orologio digitale al polso e la Waga doll di un pompiere, imitazione delle statuette Edo (1600-1867), che campeggia su un classificatore. "Ho iniziato a studiare il Giappone per poter guardare i miei interlocutori negli occhi", scherza il docente, "ma in realtà mi ci sono avvicinato quasi per caso, ereditando l'attività del professor Innocenzo Gasparini, fondatore in Bocconi dell'Istituto di studi economico-sociali per l'Asia orientale. Oggi sono passati trent'anni, la statura media dei giapponesi è cresciuta di una spanna, ma penso di conoscere questo paese meglio del 99% degli italiani".
L'ottica di lungo periodo è indispensabile per studiare l'economia dello sviluppo?Sì, è uno degli aspetti che la differenzia da micro o macroeconomia. L'altro è che, di norma, riguarda paesi in via di sviluppo. Non è sempre stato così, però. Fino al Novecento esisteva solo l'economia politica. Poi il concetto di "lungo periodo" si è differenziato. Quello dei paesi sviluppati si è chiamato crescita ed è diventato materia per economisti matematici che lo analizzavano applicando modelli teorici universali, mentre quello dei paesi non ancora industrializzati divenne l'oggetto di uno studio multidisciplinare, nel quale confluivano descrizioni storiche, aspetti di sociologia, politologia, religione, costume, ed era specializzato su un singolo paese.
Perché parla al passato?
Perché con gli anni Ottanta le due scuole si sono fuse, le teorie economiche hanno compreso le variabili del rischio e dell'incertezza e si sono molto avvicinate anche alle realtà dei paesi più poveri. Negli anni Cinquanta, per esempio, si pensava che il piccolo agricoltore di questi paesi fosse irrazionale e contrario per principio alle nuove tecnologie. Quando si è approfondito il problema, inserendo la variabile di incertezza che esiste nell'introduzione di nuovi sistemi di coltivazione, si è visto che la possibilità di non avere risultati il primo anno è molto alta, e che nessun contadino di quei paesi ha i mezzi per mantenersi un anno senza raccolto. Altro che irrazionale...
Il carattere multidisciplinare delle origini è rimasto?
Si va un po' perdendo, oggi più che avere economisti dello sviluppo abbiamo economisti monetari, del lavoro, internazionali, che si applicano a un paese in via di sviluppo.
Lo dice con un po' di rammarico.
Sì, perché si perde quella visione globale che è ancora necessaria per capire i paesi più poveri e che presuppone l'analisi degli aspetti non solo economici di una nazione. E poi, per un economista dello sviluppo, conoscere la cultura di un paese è fondamentale perché spesso tocca di doversi cercare le fonti in loco o crearsi la banca dati.
E' un mestiere da pionieri...
In un certo senso sì, perché il modo migliore per studiare l'economia dello sviluppo di un paese è andare a vedere di persona come stanno le cose. Recentemente un mio studente di dottorato, per esempio, è andato in Madagascar a verificare il numero e il funzionamento dei contratti di mezzadria, scoprendo che lì il rapporto di forza tra proprietario e mezzadro è inverso: il proprietario è il povero, spesso una vedova che ha ereditato un pezzetto di terra e non vuole venderlo per non perdere lo status sociale, mentre il mezzadro è il contadino che sta meglio, che lavora la terra e ne raccoglie i frutti.
Ha iniziato così anche lei?
Sì, il mio primo viaggio in Giappone risale al 1977, quando la crescita del Giappone era già stata sancita dall'Olimpiade del 1964, ma era pur sempre percepito come un paese passato molto rapidamente dalla distruzione della Seconda guerra mondiale al benessere.
Qual è l'aspetto del Giappone che più l'ha interessata in questi anni?
Quello più evidente è il principio confuciano dell'armonia, che si riflette in un rapporto tra settore pubblico e privato nel quale non c'è divisione, ma solo sinergia per uno scopo comune.
Esiste però la concorrenza.
Solo all'interno del settore privato, e comunque sempre disciplinata da un rispetto per il consumatore che non ha pari al mondo. Ricordo una volta che a Tokio sono andato in un grande magazzino a comprarmi un kimono estivo. Non l'avevano, e allora hanno telefonato nell'emporio adiacente per sapere se potevano fornirmelo loro. Come se la Rinascente avesse telefonato a Coin...