Fryderyk Chopin e i suoi preludi
Dopo un tormentato viaggio, Chopin sbarcò a Palma di Maiorca. Era estasiato, inebriato dai profumi, dai colori, dai suoni di quest'isola. In quel paradiso avrebbe voluto trascorrere la vita, insieme alla sua George, lontano dai salotti parigini. E soprattutto lontano da quel Friedrich Kalkbrenner, da tutti considerato il più grande pianista d'Europa. Chopin non voleva diventare un altro Kalkbrenner, un virtuoso dalla calma sovrana, dal tocco abbagliante, ma privo di emozioni, algido nella sua perfezione. Chopin si sentiva più attratto dagli slanci di Liszt, di Hiller, di Herz, di Czerny. Arrivò a Valldemosa il suo mitico Pleyel e giorno e notte, instancabilmente, scrivendo e riscrivendo, si dedicava al completamento dei suoi Preludi. Teneva sempre accanto a sé, come un talismano, il Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach.
George faceva lunghe passeggiate con i figli, Maurice e Solange. Chopin lavorava ai Preludi. La mattina si svegliava tardi. Aveva bisogno di tempo per recuperare le forze, per far carburare la sua lucidità creativa. George lo vedeva "slanciato, elegante, sempre ben vestito".Quando il fresco della sera faceva svanire la calura del meriggio, Chopin si sedeva al suo Pleyel e componeva sino a notte fonda. Alla luce fioca delle candele lavorava senza sosta. George, accoccolata nell'ombra, in silenzio, passava ore e ore a guardarlo. "La sua creazione era spontanea, miracolosa", annotava George, "la trovava senza cercarla, senza prevederla. Arrivava sul suo piano improvvisa, completa, sublime. Solo più tardi cominciava il lavoro più penoso al quale io abbia mai assistito. Era un susseguirsi di sforzi, di incertezze, di impaziente ricerca per riafferrare certi particolari del tema come lo aveva sentito. Si rinchiudeva in camera per giorni interi, piangendo, passeggiando su e giù, spezzando penne, ripetendo e modificando cento volte una misura, scrivendola e cancellandola altrettante volte, ricominciando il giorno dopo con una ostinazione scrupolosa e disperata. Passava sei settimane su una pagina per poi tornare a scriverla tale e quale l'aveva tracciata di getto".
Il tempo cambiò improvvisamente, faceva freddo. La bella isola fu inondata da incessanti piogge, che impregnarono d'umidità il giardino, le stanze della Certosa e le deboli ossa di Chopin, che si ammalò seriamente. Chopin aveva ventotto anni, era nel pieno della sua giovinezza, stava vivendo una grande, irripetibile storia d'amore, ma era fragile, cagionevole. Anni prima, l'8 settembre 1831, quando aveva appena compiuto ventun anni, aveva annotato nel suo diario un pensiero amaro, di abissale, leopardiano pessimismo: "La morte è il migliore atto dell'uomo. Quale sarà dunque il peggiore? La nascita: come assoluto contrario dell'atto migliore. Ho dunque ragione di adirarmi, dolendomi d'essere venuto al mondo! A chi mai può servire la mia esistenza!" Ora, però, sotto le piogge di Palma di Maiorca, accanto a George, Chopin non voleva morire: voleva vivere per finire i suoi Preludi. Il verdetto unanime fu infausto: tisi. A quel tempo si riteneva che la tisi fosse contagiosa, come la peste. Chopin e George, con Maurice e Solange, furono costretti a fuggire, a tornare a Parigi. A loro spese, vennero bruciati i mobili, la biancheria e i locali della Certosa vennero purificati con la calce viva. George riuscì a ottenere a caro prezzo un passaggio a Barcellona su un naviglio di contrabbando.
Chopin sopravvisse ancora una diecina d'anni a quel viaggio, sempre più fragile, magro, accompagnato dal suo mortale pallore. Come dice Cioran "il pallore ci mostra fino a che punto il corpo può capire l'anima".