Fa per tre l'industria che fa da se'
Quando si affronta la sfida della sostenibilità, una prospettiva importante è quella del ruolo delle organizzazioni industriali, che attraverso forme di autoregolazione spingono le imprese a migliorare le proprie prestazioni ambientali partecipando a programmi o a codici di condotta volontari. La crisi ambientale è un fenomeno globale, il risultato di un modello di produzione e consumo che esaspera la massimizzazione del ritorno individuale e che sfrutta le risorse naturali (aria, acqua, terra) a tassi ben superiori alla possibilità di rigenerazione.
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Stefano Pogutz |
Il risultato di questo processo, noto come tragedy of the commons, sta alterando la capacità degli ecosistemi di generare i servizi da cui dipendiamo e di mantenere la propria produttività. Esempi sono l'impoverimento delle riserve ittiche, il riscaldamento globale, la deforestazione. In questo quadro, la teoria economica ha evidenziato che per prevenire il depauperamento delle risorse è necessario identificare forme di governance che disciplinino l'uso dei beni comuni. Il ruolo di regolatore è di norma attribuito al soggetto pubblico, che ha il compito di controllare i comportamenti di imprese e organizzazioni attraverso strumenti di policy quali tasse ambientali, permessi di emissione, incentivi, ecc.
La complessità della sfida ambientale, però, ha spesso determinato il fallimento di questo approccio per l'assenza di un governo globale del pianeta e l'impossibilità di conciliare le istanze delle diverse parti coinvolte. Si pensi alla complessità dei negoziati per identificare un framework internazionale condiviso in grado di sostituire l'accordo di Kyoto. Ciò che appare interessante è che nel vuoto di governance sono state spesso le imprese a dare vita a forme di autoregolazione per disciplinare i propri comportamenti, fissando in modo autonomo le regole del gioco. La prima esperienza nota è il programma Responsible care, avviato nel 1985 dalla Canadian chemical producers' association. Quest'iniziativa, che oggi include 50 associazioni industriali di settore e migliaia di imprese, fu introdotta per favorire miglioramenti nelle prestazioni ambientali, di salute e sicurezza dei lavoratori e per aumentare la trasparenza della comunicazione verso gli stakeholder. Esperienze simili sono state sviluppate dall'industria mineraria con l'International Council on mining and metals, che nel 2001 ha lanciato un programma per migliorare le prestazioni di sostenibilità delle imprese del comparto, e dall'industria del cemento, con la Cement sustainability initiative che oggi comprende i 22 più grandi produttori. Altre esperienze hanno per oggetto forme di certificazione delle attività aziendali lungo la supply chain con l'obiettivo di conferire un marchio distintivo, da utilizzare verso il mercato finale. È il caso di organizzazioni come il Marine stewardship council (Msc) o il Forest stewardship council (Fsc), nate grazie al coinvolgimento non solo di imprese, ma anche di ong, che puntano a promuovere la diffusione di pratiche di pesca e di forest management sostenibili. L'Msc rappresenta oggi il 10% della pesca mondiale, mentre l'Fsc nel 2011 ha certificato oltre 147 milioni di ettari di foreste in più di 50 paesi. Al contempo, diversi ricercatori sollevano dubbi sull'efficacia di queste misure nel promuovere un effettivo miglioramento della qualità ambientale. Qual è, dunque, l'efficacia di questi strumenti? È un tema promettente a livello di ricerca, che permetterebbe di esplorare nuovi orizzonti per identificare le misure più efficaci nella lotta al degrado del nostro pianeta.