Europa e Usa, stessi guai e oscillazioni diverse
Per cogliere la portata della crisi finanziaria nell'economia reale basta guardare i dati americani degli ultimi mesi: l'inflazione è passata dal 5,6% di luglio allo 0%, il pil è crollato al -2% (quasi 5 punti sotto il tasso di crescita potenziale di lungo periodo), e la disoccupazione è arrivata a 4,4 milioni, pari a un tasso dell'8% (a fronte di una media storica del 4%).
In Europa questi dati paiono delineare un quadro meno grave: l'inflazione è scesa dal 3,5 all'1%, il pil si contrae in media dell'1,5% (3,5 punti sotto il potenziale) e il tasso di disoccupazione è sì simile a quello americano, ma solo un punto sopra la media degli ultimi anni. Per l'Italia le cifre sono simili: poiché la crescita potenziale italiana è stimata all'1%, la recessione prevista nel 2009 pari a -2,5% è, purtroppo, assolutamente in linea con la media europea.
Possiamo concludere che l'Unione europea sta meno peggio degli Stati Uniti? Ci sono in realtà due interpretazioni di questi dati, nessuna necessariamente ottimista dal punto di vista europeo.
In prima battuta, si potrebbe sostenere che l'Europa non ha ancora sperimentato il peggio della crisi, per cui il picco negativo attualmente centrato sugli Stati Uniti nei prossimi mesi arriverà anche in Europa. I dati in realtà non sembrano supportare tale tesi: per avere una situazione simile a quella americana il pil europeo dovrebbe scendere al -3%, e la disoccupazione salire all'11%, valori che si collocano molto al di fuori delle stime di tutti i modelli previsionali dell'economia Ue per il 2009-10. Piuttosto, sembra prevalere l'idea che la struttura economica europea, con il suo sistema di stato sociale, riesca ad attenuare gli effetti sulle variabili economiche della crisi. Non sarebbe del resto la prima volta: nell'ultimo caso di recessione (2001), il pil americano è sceso fino a -1%, mentre quello europeo è rimasto allo 0,5% (valori minimi registrati sul trimestre).
Purtroppo, tale constatazione contiene in sé i termini del vero problema europeo, ossia la velocità di ripresa dopo la crisi. Nel 2001, agli Stati Uniti occorsero meno di due anni per recuperare un tasso di crescita in linea con il potenziale, mentre l'Europa ne impiegò quasi quattro. La ragione è in parte legata alla modalità di aggiustamento del sistema economico agli shock. Negli Usa, la crisi economica colpisce quasi subito e in gran parte il mercato del lavoro, che espelle gli occupati dalle imprese, mentre l'investimento di queste si ristruttura di conseguenza. In Europa accade l'opposto: la struttura di stato sociale è distorta a favore della preservazione dell'occupazione, con conseguenze negative sulla capacità di investimento. I dati confermano tale ipotesi: la volatilità dei tassi di crescita dell'occupazione negli Stati Uniti centrata intorno alla recessione del 2001 è stata doppia rispetto all'analogo dato europeo; oggi, il tasso di disoccupazione europeo è poco sopra il suo tasso strutturale, mentre quello americano è al doppio del suo valore naturale.
La conseguenza principale della peculiarità europea è che il sistema economico è più lento a riallocare le risorse tra settori e tra imprese, che è la chiave per una veloce ripresa. Consentire alle imprese la riduzione dell'occupazione, incentivandole agli investimenti necessari alla loro ristrutturazione, e garantire il potere di acquisto di tutti i lavoratori in mobilità in attesa del loro riassorbimento nelle nuove imprese ristrutturate, magari attraverso una rimodulazione del sistema degli ammortizzatori sociali, è la migliore ricetta possibile per un rapido superamento della recessione e per la sostenibilità della ripresa nel tempo.
Purtroppo, l'enfasi dei piani di rilancio nazionali varati in questi mesi non sembra presagire un cambio di ottica, anzi; la condizionalità degli interventi pubblici alla preservazione dell'occupazione ricorre sempre più spesso nella retorica politica. Eppure, l'analisi economica ci dice che la migliore tutela per garantire un adeguato reddito futuro a un lavoratore è consentire oggi l'eventuale perdita del suo posto di lavoro.