Eroi dell'Antropocene
Circa dieci anni fa Paul Crutzen, Nobel nel 1995 per le sue ricerche sullo strato di ozono, ha introdotto il termine Antropocene. Il neologismo esprime la caratteristica della nostra era geologica, in cui una sola specie, l'uomo, ha la capacità di alterare la regolazione del clima e le caratteristiche della superficie terrestre, generando un impatto sul pianeta mai registrato prima. Gli effetti di questi processi sono monitorati dalla comunità scientifica, che negli ultimi anni ha evidenziato come la distruzione degli ecosistemi, la perdita di biodiversità e la degradazione del capitale naturale siano sempre più pervasivi e incalzanti nell'apatia politico-istituzionale e nell'inefficienza di reali contromisure.
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Stefano Pogutz |
In questo ambito, anche i risultati raggiunti dalle imprese hanno mancato in efficacia. Una spiegazione è legata al fatto che gran parte degli interventi a tutela dell'ambiente si è focalizzata sui processi di trasformazione, mentre gli impatti che si generano a monte e a valle (indiretti), di norma molto più rilevanti in termini di danni agli ecosistemi e perdita di biodiversità, sono rimasti per anni esclusi dalle strategie aziendali.
Oggi, però, emergono nuovi comportamenti. Organizzazioni per la difesa del pianeta come The nature conservancy, il World resource institute o il Wwf, network di imprese come il World business council for sustainable development e agenzie Onu quali lo United nation environment programme hanno messo insieme le proprie forze per promuovere la difesa degli ecosistemi.
Una mappatura delle prime 100 imprese di Fortune mostra che un numero crescente di multinazionali hanno avviato iniziative a protezione del capitale naturale. Si tratta non solo di settori che dipendono direttamente dalla quantità e dalla qualità dei servizi prodotti dagli ecosistemi (l'agro-alimentare, il turismo, l'acqua, la produzione di legname), ma anche di attività che solo parzialmente utilizzano tali servizi (l'industria estrattiva e mineraria, le utility, le attività finanziarie).
Ad esempio, AcelorMittal, una dei leader dell'acciaio (oltre 20 miniere nel mondo), dal 2005 ha sviluppato un programma per la protezione della biodiversità in Liberia, dove estrae ferro da una miniera nelle Nimba Mountains, regione che contiene una delle poche foreste pluviali rimaste nell'Africa Occidentale, dichiarata patrimonio dell'umanità. Altro caso è quello di Syngenta, azienda svizzera dell'agri-business (produzione di sementi e di fertilizzanti), che ha sviluppato uno specifico piano, Operation Pollination, per aumentare la produttività agricola investendo nella protezione degli impollinatori nativi in 15 paesi tra Europa e Usa. Anche Unilever, multinazionale che controlla marchi come Lipton, Dove e Knorr, ha avviato da anni un programma, in partnership con ong internazionali e locali, diretto a educare gli agricoltori da cui provengono le proprie materie prime anche sulla protezione della biodiversità. Altri esempi coinvolgono Chiquita, Kraft Foods, Nestlé o Ikea, che acquistano banane, caffè, cacao, acqua o legno da produttori certificati da organizzazioni indipendenti come Rainforest alliance, Utz o Forest stewardship council.
Queste iniziative differiscono per obiettivi e raggio d'azione. Possono puntare a ridurre i rischi operativi, al controllo delle materie prime critiche, alla reputazione e all'immagine, ma possono anche derivare dalla volontà di esplorare nuove opportunità di mercato: Natura, azienda brasiliana leader nel settore cosmetico in Sudamerica, fa della protezione della foresta amazzonica un elemento fondante del proprio modello di business.
Lo studio delle relazioni tra ecosistemi, biodiversità e organizzazioni apre dunque un'innovativa e ampia research agenda per chi svolge ricerca in ambito organizzativo-manageriale, nella consapevolezza che una rappresentazione del mondo senza la natura, quella che le discipline economico-aziendali propongono, risulta parziale, miope e sempre più pericolosa.