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E se Obama fosse figlio di Franklin D. Roosevelt?

, di Giuseppe Berta - professore associato di Storia contemporanea
L'azione della task force guidata da Steven Rattner per salvare le imprese dell'auto ricorda l'epoca New Deal

Ci sono un lascito, una traccia, un imprinting nell'attuale amministrazione democratica americana che possano essere fatti risalire al New Deal? Il presidente Obama, tacciato così spesso di interventismo da parte dell'opposizione repubblicana al punto di essere accusato di socialismo, è per qualche verso un erede di Franklin D. Roosevelt?

A prima vista, nessuna delle politiche messe in atto dalla nuova amministrazione sembra riecheggiare alcun tema newdealer. L'attitudine espansiva che caratterizza la Fed non ha relazione con la politica economica degli anni Trenta, né esiste un programma di intervento pubblico che richiami le ampie strategie rooseveltiane. E tuttavia, emergono tra le righe atteggiamenti e propensioni che rivelano un'assonanza con quelle temperie, se non altro per un approccio che si riallaccia alla grande tradizione democratica del secolo scorso. Quest'aspetto affiora dalla lettura del primo libro che descrive il funzionamento e il modus operandi dell'amministrazione Obama dall'interno, proprio attraverso l'analisi dell'intervento pubblico che è stato realizzato durante questa crisi. Il libro è quello firmato da Steven Rattner e si intitola Overhaul. An Insider's Account ot the Obama Administration's Emergency Rescue of the Auto Industry (Boston-New York, Houghton Mifflin Harcourt, 2010). Rattner, un ex giornalista passato a Wall Street, dove ha avuto successo come banchiere d'investimento, è colui che ha guidato la task force nominata da Obama all'inizio del proprio mandato per salvare le imprese dell'auto di Detroit, General Motors e Chrysler, minacciate nella loro sopravvivenza. Si è trovato così alla testa di un'agile struttura d'intervento temporanea, creata all'interno del Tesoro, che ha dovuto organizzare e gestire un salvataggio da 82 miliardi di dollari: il più grande nella storia americana del dopoguerra. È stato un compito molto difficile, portato a termine con efficacia da Rattner che per senso di missione civile ha lasciato i ricchi incarichi di Wall Street per sobbarcarsi un mucchio di problemi, a fronte di un compenso risibile. Ciò che avvicina l'opera della task force sull'auto allo spirito del New Deal è, anzitutto, che si è trattato di una struttura speciale, che agiva in una condizione di autonomia rispetto all'amministrazione ordinataria ed era perciò dotata di una rapidità e di una flessibilità operative più elevate. Poi, in un certo senso, Rattner e la sua squadra si sono trovati di fatto a far rivivere una particolare dimensione del New Deal, quella del rapporto triangolare fra big state, big business e big labor, muovendosi fra i manager delle grandi case automobilistiche e l'ancor influente Union of Automobile Workers of America (un sindacato che aveva contribuito all'elezione di Obama nel Midwest). Certo, in più c'era che si dovevano contenere le spinte e le pressioni di concessionari d'auto imbufaliti e detentori delle azioni e delle obbligazioni di General Motors e Chrysler, timorosi di perdere tutto. Si è così configurato un processo di negoziato che non è affatto riconducibile a un sistema regolato dallo Stato o in cui le attività siano per principio sottomesse al controllo pubblico. Al contrario, ha prevalso una dinamica degli interessi fortemente pluralistica, dove gli attori chiamati a interagire fra di loro sono stati molteplici. Nel complesso, si è delineato un metodo fondato sulle interdipendenze, che non ha nulla a che vedere con una regolazione coercitiva. Un assetto che rimanda a una visione di pluralismo organizzato e dinamico, che recupera e assorbe (ma anche depura degli elementi dirigistici) la grande lezione democratica del Novecento.