Do you eat italian?
L'alimentare italiano, secondo per valore in Europa dopo Germania e Francia, costituisce un vero e proprio asset della nostra economia nazionale: vanta un fatturato di 127 miliardi di euro nel 2011, circa il 2,4% in più rispetto al 2010 (fonte: Federalimentare), ed è il secondo comparto manifatturiero del nostro paese. Forti di queste evidenze, sono in molti a credere che si tratti dell'unico settore del made in Italy immune alla crisi dei nostri tempi e che, anzi, le uniche categorie sulle quali non si è disposti a rinunce siano proprio gli alimenti e le bevande.
Tuttavia, se è vero che per numerose piccole e medie imprese nostrane la crescita dell'ultimo decennio è stata trainata principalmente dal mercato domestico, è altrettanto credibile che in tempi come questi il vero sviluppo debba passare prevalentemente attraverso l'apertura a mercati stranieri. Oggi export vuol dire prima di tutto Germania (18%), Francia (13%), Stati Uniti (11%) e Gran Bretagna (10%) e, in termini di comparti, vede protagonista il vino (20%), seguito dalle conserve vegetali e i succhi di frutta (13,4%) e dal dolciario (12,3%). Appare evidente, quindi, che tanto in termini di mercati quanto di tipologie di prodotto, il fenomeno risulta essere alquanto circoscritto, che gli sforzi per l'internazionalizzazione coinvolgono ancora pochi settori e a vantaggio di target geografici ancora limitati. Inoltre, la netta prevalenza del continente europeo, con la sola eccezione degli Usa, lascia intendere che vi è un incredibile potenziale nei paesi emergenti, che sono in gran parte inesplorati ma che offrono concrete occasioni di sviluppo. A questa consapevolezza, però, dovrebbe accompagnarsi la convinzione che il successo delle imprese del settore nei paesi ormai ambiti dai più deriva da un'estrema conoscenza del mercato, dall'adattamento del sistema di prodotto alle abitudini e alla cultura del luogo e dall'acquisizione di competenze specifiche nella relazione sia con il trade sia con il cliente finale. Le scelte alimentari sono, più di altre, legate alla dimensione sociale, culturale e religiosa di un paese. L'ingresso in mercati diametralmente differenti da quello di origine implica la necessità di gestire una fisiologica diversità e un costante monitoraggio dei trend e degli scenari locali. È richiesto, cioè, uno sforzo strategico che consenta un posizionamento nuovo e in linea con il diverso contesto competitivo, pure attraverso l'innovazione dei processi e dei modelli di business. Anche il settore alimentare italiano sta vivendo, quindi, una fase di profondo cambiamento. Le grandi opportunità di crescita sono ormai lontane dai confini nazionali e la capacità di affrontare i nuovi mercati si sposa con l'adozione di un approccio manageriale che, pur partendo dalla più che nota eccellenza di prodotto, deve prendere le mosse dalla domanda. Inoltre, non si può ignorare che la gran parte degli operatori del food and beverage mondiale sono già presenti in questi paesi con iniziative congiunte di grande rilevanza strategica (si pensi, per esempio, all'intraprendenza dei produttori di Bordeaux sul mercato cinese). Esperienze di questo tipo devono far pensare che il rischio di perdere preziose occasioni di sviluppo c'è. Siamo certamente dinanzi a uno dei settori più importanti e trainanti del nostro paese ma la leadership internazionale è purtroppo tutt'altra cosa.