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Di Costituzione sana e robusta, ma vecchia

, di Federico Farina
Bocciata nel 2006, la riforma della carta costituzionale raccoglie nuovi consensi bipartisan. Ne parla Lorenzo Cuocolo, docente di diritto pubblico

Comunque andranno le prossime elezioni politiche, il parlamento che uscirà dalle urne potrebbe essere l'ultimo disegnato secondo i principi della Costituzione della Repubblica italiana del 1947. Nell'agenda dell'esecutivo che verrà, infatti, la riforma della seconda parte della carta costituzionale, dall'articolo 55 in poi, e la stesura di una nuova legge elettorale, occupano i primissimi posti. Sono le esigenze di modernizzazione dell'assetto istituzionale a richiederlo ma anche la pressione di un'opinione pubblica ormai ipersensibile ai costi della politica, al problema del suo svecchiamento, della sua efficacia e dei suoi tempi. Non è un caso che, nelle ultime legislature, i governi di ogni colore abbiano provato a varare una riforma costituzionale, ma senza successo. Dopo il tentativo del secondo governo Berlusconi, la cui proposta di legge è stata bocciata all'ultimo atto, il referendum confermativo del giugno 2006, la materia è stata oggetto di dibattito alla più recente Commissione affari costituzionali della Camera, che, nell'ottobre scorso, ha raccolto l'approvazione bipartisan su una nuova proposta di legge. Tra gli altri provvedimenti, questo testo avrebbe sancito la fine del bicameralismo perfetto accentrando i poteri alla Camera dei deputati e introducendo un Senato federale eletto su base regionale, e avrebbe ridotto il numero di deputati da 630 a 512 e quello dei senatori da 315 a 184, per un risparmio annuo di 135 milioni di euro (un confronto, del tutto ufficioso, tra il testo della Costituzione in vigore dal 1991 e quello delle due più recenti proposte di legge si può leggere su www.lacostituzione.it/comparatesti_2001_2005_2007.php). Sembrava cosa fatta, insomma; ma la caduta del governo Prodi ha resettato tutto.

"La bozza approvata in commissione potrà essere la base per le prossime riforme, soprattutto considerato il consenso che aveva raccolto da tutte le parti politiche", conferma Lorenzo Cuocolo, docente di diritto pubblico e costituzionale all'Università Bocconi. "Tecnicamente, però, con la fine della legislatura decadono tutti i procedimenti in corso e bisogna ricominciare da zero". Alcuni elementi, però, sono comuni a tutte le ipotesi tracciate e sembrano indicare una direzione dalla quale non si tornerà indietro. Tra questi i più evidenti sono: la riduzione del numero dei parlamentari, la fine del bicameralismo perfetto e il rafforzamento del ruolo del premier.

"La riduzione del numero di parlamentari è sacrosanta", sentenzia Carlo Secchi, docente di politica economica europea in Bocconi ed ex parlamentare europeo. "Sono almeno il doppio di quelli che servono e di quelli che hanno molti altri stati europei, un numero stabilito prima che ci fossero le regioni o che esistesse l'Europa, un anacronismo".

Insieme all'assottigliamento di deputati e senatori, la prossima riforma costituzionale scriverà un nuovo capitolo della storia repubblicana dichiarando la fine del bicameralismo perfetto, ovvero dell'esistenza di due camere più o meno assimilabili per competenze e poteri. "Questo sistema è stato via via abbandonato in gran parte degli ordinamenti liberaldemocratici, fino a costituire oggi una vera e propria rarità costituzionale", hanno ricordato i due deputati Sesa Amici (Ulivo) e Italo Bocchino (An) nella loro relazione alla Commissione affari costituzionali del 17 ottobre scorso. "Il bicameralismo paritario è fonte di lentezza e di scarsa efficienza dell'azione di governo. Ciò è ancora più visibile nel contesto attuale della democrazia bipolare e maggioritaria, dove rischia di paralizzare il funzionamento fisiologico delle istituzioni in presenza di possibili maggioranze contrastanti nelle due Assemblee parlamentari". In realtà, come spesso accade in Italia, le intenzioni all'origine del bicameralismo erano le migliori. "Nell'idea dei padri della Costituzione il Senato avrebbe dovuto moderare la Camera, funzionare come stanza di raffreddamento", spiega Cuocolo. "Con la prassi ha finito, invece, per esserne un doppione, anche perché da noi non esistono comitati di conciliazione o comunque sistemi per vincere il dissenso della camera alta". La soluzione prospettata da più parti appare l'adozione di un sistema all'americana, o alla tedesca, con una camera legislativa espressione del popolo e un Senato che rispecchi l'assetto "semifederale" dello Stato, con i senatori eletti su base regionale e che non sia vincolato dal rapporto fiduciario con il governo. "Una formula che accontenterebbe in parte anche chi auspica l'avvento del federalismo", commenta Cuocolo, "anche se, in questo senso, sarebbe molto più importante dare completa attuazione all'articolo 119 della Costituzione, che ridistribuisce le ricorse economiche in capo alle regioni...".

Altra rivoluzione annunciata riguarderà il rafforzamento del governo, in primis l'attribuzione al premier di poteri più ampi e la sua individuazione direttamente da parte dei cittadini. "L'importante è che la fiducia si basi sul consenso elettorale", conferma Secchi. "Gli elettori devono poter designare il primo ministro e il tipo di coalizione che può governare secondo un sistema maggioritario adattato alle peculiarità italiane. I cittadini vogliono essere messi di fronte a scelte chiare, e non delegarle a una classe politica della quale hanno poca fiducia. Un sistema come quello che abbiamo, con le liste bloccate, può funzionare in un paese dove i partiti, attraverso primarie, congressi o altro, scelgono i propri candidati in modo trasparente. Da noi non è così. Occorre allora che l'individuazione dei candidati risalga ai cittadini". Anche per questo la discussione sulla riforma costituzionale sembra indissolubile da quella sulla nuova legge elettorale. Mentre sulla prima, però, le forze politiche hanno già espresso larghe intese, sulle regole per il voto l'accordo è complicato dal veto, spesso determinante, dei piccoli partiti. Nuova legge, insomma, ma vecchia politica.