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Decadenza anticipata

, di Vincenzo Galasso - professore di economia, direttore del Dipartimento di Scienze sociali e politiche, Universita' Bocconi
I prepensionati sono più esposti al processo degenerativo delle capacità analitiche rispetto a chi continua il lavoro

L'aumento dell'età di pensionamento evoca scenari catastrofici. Come faranno le persone anziane a continuare a lavorare? È una domanda legittima, soprattutto perché da almeno 50 anni eravamo abituati a lavoratori che vanno in pensione prima dei loro padri. Alla fine degli anni Sessanta gli uomini italiani andavano in pensione in media a 65 anni. Agli inizi degli anni Novanta, la media si è abbassata a 59,5 anni, di gran lunga inferiore ai 64 di quella dei paesi Ocse. Molti studi indicano nel sistema previdenziale il principale indiziato di questa fuga verso il pensionamento. Nel corso degli anni a diverse generazioni di lavoratori anziani è stata garantita una generosa e anticipata uscita del mondo del lavoro, ma la politica previdenziale oggi è cambiata e l'età media di pensionamento (per gli uomini) è risalita a 61 anni circa.

Vincenzo Galasso

Poiché in Italia tutti sembrano voler andare in pensione al più presto (eccetto poche privilegiate categorie, che rimangono al potere fino a tarda età) verrebbe da chiedersi se fa poi così male continuare a lavorare. Siamo sicuri che andare in pensione sia un bene? Alcuni studi mostrano che continuare a lavorare può in realtà contribuire a mantenere a un buon livello quelle capacità cognitive che tendono a decadere con l'età. Dopo i 55 anni, alcune capacità come la memoria immediata e di lungo periodo, l'abilità nel comunicare e soprattutto le capacità analitiche tendono a ridursi lentamente, ma inesorabilmente. Attraverso la Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe (Share), F. Mazzonna e F. Peracchi (2012) tuttavia mostrano che chi utilizza il pre-pensionamento per lasciare il mercato del lavoro in anticipo è più esposto a questo processo degenerativo. Ma perché mai andare in pensione fa male? Questo effetto negativo può essere dovuto all'allontanamento che il pensionato subisce dal suo network sociale. Chi va in pensione tende a ridurre le interazioni sociali, che prima avvenivano soprattutto con i colleghi, e che (alcuni penseranno paradossalmente) ci aiutavano a mantenerci in forma, almeno a livello cognitivo. L'isolamento, la mancanza di contatti e stimoli sociali riduce le nostre capacità cognitive.

Se lavorare più a lungo può far bene ai lavoratori, c'è da chiedersi se avere dei lavoratori anziani convenga anche alle imprese. Abbiamo già detto che le capacità cognitive si riducono con l'età. Di fatto, le capacità analitiche e matematiche diminuiscono già dai 35-40 anni. Fortunatamente, le capacità manageriali e di comunicazione ci vengono in aiuto: aumentano in media fino ai 45 anni per poi rimanere quasi costanti. Per alcune mansioni dunque le imprese non dovrebbero essere avverse a impiegare lavoratori anziani, soprattutto se il profilo salariale per età fosse meno progressivo, e gli scatti salariali non fossero solo legati alla seniority. Ma cosa dire dei lavoratori che svolgono mansioni manuali? Uno studio di A. Börsch-Supan e M. Weiss (2011) analizza la produttività dei lavoratori in una catena di montaggio di una casa automobilistica tedesca. I loro dati mostrano che i lavoratori giovani tendono a compiere meno errori degli anziani, ma i lavoratori più anziani (ultra-cinquantenni) commettono errori meno gravi. Sono più spesso i giovani a causare i danni maggiori, che causano il fermo della linea di assemblaggio.

Lavorare più a lungo non sembra perciò avere controindicazioni, e può cessare di essere un tabù.