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Dal private equity una spinta all’innovazione

, di Carlo Mammola - docente di gestione della tecnologia, dell'innovazione e delle operations alla Bocconi
Ritorno dell’investimento. Un effetto collaterale e positivo della massimizzazione del profitto

Private equity e innovazione, un binomio che a tutta prima sembra un errore: non era il venture capital quello istituzionalmente destinato ad occuparsi di innovazione? Cosa c'entra il private equity?

Nessun errore in realtà: secondo modalità e logiche differenti ma anche il private equity crea e promuove innovazione.Proviamo a ragionare, partendo da cosa si intenda per innovazione. Le definizioni, da Schumpeter in poi, sono davvero numerose e, tra le tante, una particolarmente efficace la indica come: "l'applicazione produttiva ed economica di un'invenzione". In sintesi ci ricorda che l'elemento di novità deve essere incorporato in qualcosa che funzioni (un'applicazione), che sia efficacemente e convenientemente riproducibile e, aggiungiamo noi, che interessi a qualcuno, si rivolga cioè a un mercato potenziale ben individuato. Esistono naturalmente innovazioni di intensità molto differente: si parte da quelle cosiddette incrementali, rappresentate da migliorie del prodotto o ottimizzazioni del processo produttivo; si passa attraverso le innovazioni strutturali e di nicchia, che implicano la declinazione dell'applicazione originaria ('dominant design') in una serie di varianti o l'aggiunta di ulteriori prestazioni; per arrivare all'innovazione rivoluzionaria spesso basata su una tecnologia 'destroying' rispetto a quella fino ad allora dominante. L'intero range di potenziali innovazioni nelle sue variegate sfumature ha tuttavia il medesimo fine ultimo: la generazione di un vantaggio competitivo che consenta all'azienda di creare valore. Differenziarsi per generare non solo e non tanto profitti correnti, ma valore intrinseco e sostenibile.Veniamo agli operatori di private equity: il loro scopo, al contempo logico e dichiarato, è di ottenere il massimo ritorno possibile per i propri investimenti, in un arco temporale non predefinito ma, normalmente, di medio termine. Tale obiettivo implica necessariamente l'incremento di valore dell'oggetto dell'investimento, cioè l'impresa, alla luce della banale considerazione che il valore della stessa all'istante iniziale è stato corrisposto dall'investitore di private equity al venditore, sulla base di quanto "certificato" dal mercato, mediante il processo di cessione ormai quasi esclusivamente di natura competitiva. Si tratta dunque, partendo da un dato valore iniziale, di incrementarlo creandone di nuovo. Ecco allora una prima fondamentale coincidenza: lo scopo ultimo dell'operatore di private equity è esattamente ciò a cui l'innovazione è direttamente strumentale, l'incremento di valore. Ed intendiamoci, non si tratta di valore puntuale, estemporaneo o 'corrente'. Gli investitori di private equity infatti non sono granché interessati alla remunerazione di breve termine (dividendi o altro), bensì puntano tutto sul valore all'istante finale, cioè al momento del disinvestimento. E ancora una volta, tale valore sarà certificato dal mercato, analizzato e interpretato dai potenziali acquirenti come valore intrinseco e sostenibile, come potenziale per la generazione di altra innovazione e la creazione di ulteriore ricchezza. Ecco allora che l'operatore di private equity è di fatto 'costretto' a far qualcosa di più e di nuovo rispetto a ciò che ha comprato, è 'obbligato' a spingere l'azienda verso nuovi traguardi, a intraprendere iniziative che ne incrementino il valore in modo oggettivo e credibile. In una parola, da intendersi nella sua accezione più pregnante e positiva, è costretto a innovare.