Come ti risolvo il mistero del conflitto scomparso
Secondo il ministro dell'economia, Giulio Tremonti, l'attuale è la prima grande crisi senza conflitto sociale. È la prima volta che un sommovimento economico così vasto non induce manifestazioni diffuse di protesta sociale. Anche qui, la scena è stata prevalentemente mediatica: forse non a caso, proprio Tremonti ha ripetutamente elogiato forme di mobilitazione come quella, pionieristica, dei lavoratori della Innse, che hanno scelto di rivolgersi direttamente all'opinione pubblica sospesi in alto su una gru. Da quel momento in poi, l'andamento sociale della crisi è stato punteggiato di episodi che si sono rifatti al metodo della resa spettacolare della protesta, con gli operai sui tetti delle fabbriche inoperose e così via. È evidente che questo modo di gestire il disagio indotto dalla crisi non ha rafforzato né la capacità di mediazione né l'efficacia dell'azione del sindacato. Quest'ultimo ha affrontato i problemi del lavoro non tanto attraverso la mobilitazione collettiva, quanto sui tavoli di dialogo con le istituzioni, ciò che ha contribuito a relegare in secondo piano la dimensione della visibilità di massa della protesta collettiva.
Un'impressione analoga si ricava dal confronto pubblico sui temi delle relazioni industriali. Un tempo, sarebbe sicuramente apparso singolare che, in una fase di crisi, le questioni all'ordine del giorno nel dibattito sindacale siano l'avvìo del nuovo assetto contrattuale (con lo spazio maggiore che le regole da poco introdotte riservano alla contrattazione aziendale) e le prospettive della partecipazione dei lavoratori all'impresa. Il primo elemento è ora al vaglio del rinnovo del contratto nazionale di categoria dei metalmeccanici, che vede una netta contrapposizione tra Fim-Cisl e Uilm-Uil (schierate a favore del nuovo ordinamento negoziale) e la Fiom-Cgil, che l'avversa e che ha già dichiarato un primo sciopero (senza probabilmente attendersi un grosso risultato, considerato l'alto numero di lavoratori in cassa integrazione là dove vi sono le maggiori concentrazioni manifatturiere). La frontiera della partecipazione, adombrata in un progetto di legge bipartisan elaborato da Pietro Ichino e da Maurizio Castro, permane incerta e vale soprattutto come stimolo culturale per i soggetti delle relazioni industriali. Di sicuro si disloca lungo l'asse opposto a quello del conflitto. Questi segnali indicano davvero una novità nella cornice sociale e di opinione che fa da sfondo alla crisi, le cui dinamiche sono affidate in primo luogo alla capacità evocativa dei media. Restano da comprenderne le ragioni, non riconducibili all'unico motivo della estesa frammentazione del mondo del lavoro d'oggi, inadatto a esprimere delle rappresentanze forti e dei comportamenti unificanti. Certo influisce, e parecchio, il carattere fortemente impersonale ed effettivamente globale che ha assunto la crisi, percepita come un fenomeno largamente fuori della portata degli attori nazionali. Per restare nell'ambito delle imprese manifatturiere, duramente colpite dalla caduta del commercio mondiale, la sensazione di molti lavoratori delle imprese medio-piccole è effettivamente quella di essere accomunati alle sorti e alle prospettive aziendali. Ciò depotenzia fortemente le basi del conflitto industriale, perché la crisi tende a sottolineare un sostrato primario di interessi comuni. Ma è la terziarizzazione ad aver messo a più dura prova la condizione dei lavoratori, accentuandone il carattere disperso e la povertà, per non dire l'assenza, delle tutele. Questa frantumazione dell'identità collettiva è un antidoto fortissimo alla protesta sociale, acutizzata ancora di più dalle conseguenze dell'immigrazione. Insomma, per capire il venir meno delle spinte alla protesta collettiva nel mondo del lavoro varrebbe la pena di rileggere il celebre saggio con cui Werner Sombart, all'inizio del Novecento, spiegava perché non c'è il socialismo in America, ricercandone la causa nella segmentazione del mercato del lavoro.