Cittadinanza più facile per i discendenti delle ex-italiane
Quando l'Italia era una terra di emigranti, chi lasciava il paese diventava prima o poi americano o argentino, perdendo la nostra cittadinanza. In omaggio all'imperante principio di nazionalità, la doppia cittadinanza e la diversità di cittadinanza in famiglia erano viste con sfavore, come causa di confusione nella discendenza e di problemi alla chiamata alla leva. Inoltre, la cittadinanza si trasmetteva solo in linea maschile e la donna che sposava uno straniero di massima acquistava la cittadinanza del marito. Questo regime cristallizzato dalla nostra legge del 1912 è durato fino al 1992, anche se il nuovo diritto di famiglia del 1975 e la Corte costituzionale in quegli anni avevano fatto cadere la trasmissione della cittadinanza italiana solo in via paterna e salvaguardando la cittadinanza delle italiane sposate con uno straniero.
La legge del 1992 ha allargato le maglie, ammettendo in genere la doppia cittadinanza ed eliminando l'obbligo di opzione tra l'una e l'altra. In verità si tratta di un cambiamento di rotta quasi universale, favorito dalla mobilità delle persone, dalla ripresa dei fenomeni migratori, dai matrimoni misti che danno luogo nei figli a molteplici radici. Mantenere un'altra cittadinanza, ereditata da uno dei genitori, può diventare prezioso: un italiano figlio di una americana potrà trasferirsi senza problemi in Usa per studio o lavoro, il nipote di un polacco o italiano emigrato oltre oceano si ritroverà anche cittadino europeo.
Nascono così rivendicazioni difficili da risolvere quando i figli e discendenti di ex-italiani richiedono il nostro passaporto. Chiunque si dimostri oriundo può tornare italiano? Un'opzione che per molti può essere interessante, se si considera che non è richiesta né la residenza, né l'abbandono della cittadinanza principale già posseduta. Anzi, come italiano all'estero si puo' votare e così pure influenzare i destini della nuova patria.
La nostra giurisprudenza è stata di manica larga negli ultimi tempi, ma qualche paletto lo aveva mantenuto. Per esempio, se l'antenato aveva perso la cittadinanza italiana prima della nascita del discendente che la rivendica, la perdita non poteva essere sanata. Quanto alle ex-italiane a causa di matrimonio varie norme transitorie tra il 1975 e il 1992 avevano consentito il recupero, ma poche ne avevano avuto cognizione. Per non parlare delle rivendicazioni dei figli delle ex-italiane non più in vita al momento delle norme riparatrici. Per tutti questi casi la Cassazione aveva posto un limite alla retroattività, quello del 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore della Costituzione.
È questa la barriera che la Suprema Corte ha fatto cadere con la sentenza 4466 del febbraio 2009, la quale ha proclamato l'imprescrittibile diritto delle ex-cittadine, anche tali da prima del 1948, e, in pratica, dei loro discendenti, di ottenere il riacquisto. Nella sentenza la Corte si difende dalla possibile accusa di aver aperto in modo acritico le porte a persone lontanissime dall'appartenenza alla comunità nazionale, richiamando la larghezza con cui il nostro legislatore ha esteso il voto ai citttadini all'estero. Forse si vogliono aumentare gli italiani di origine in un momento in cui cresce l'immigazione in Italia?
La legge del 1992, che ha largheggiato con gli ex e con i mezzi italiani, ha stretto invece le maglie sulla concessione della nostra cittadinanza agli immigrati in Italia, che spesso sono più inseriti nel nostro paese e la cui integrazione andrebbe favorita: da 5 a 10 anni di attesa se non c'è da far valere un matrimonio con un italiano/a.
Tra i mille risvolti della globalizzazione anche questo meriterebbe piu' attenzione.