Cina regina dell'm&a, Italia terra di occasioni
Nei primi nove mesi del 2012 le operazioni di acquisizione e fusione hanno subito un nuovo drastico calo in termini di numerosità e volumi. Le operazioni censite dall'Osservatorio m&a del Cresv Bocconi sono state, infatti, 172 contro le 226 dei primi nove mesi del 2011, con una riduzione del 24%. In termini di volumi si è registrato un dimezzamento, passando dai 53 miliardi di euro del 2011 ai 25 del 2012. L'inizio di questo nuovo ciclo negativo in Italia risale al secondo semestre del 2011 e preme sottolineare la completa scomparsa di operazioni di grandi dimensioni nel nostro paese.
Leonardo Etro e Sara Alberti |
Quasi il 70% delle operazioni ha avuto luogo all'interno dei confini domestici e molto contenute, pari circa al 7%, sono le operazioni realizzate all'estero (il restante 23% rappresenta operazioni di soggetti esteri su aziende italiane). L'm&a nel paese rimane trainato dalle imprese di grandi dimensioni, mentre le pmi, nonostante le problematiche dovute alle ridotte dimensioni fin troppo spesso evidenziate nel dibattito politico e accademico, risultano restie a intraprendere un percorso di crescita esterna. Un recente studio condotto da JPMorgan ha evidenziato come l'Emea (Europa, Medio Oriente e Africa), con oltre 370 miliardi di dollari tra 2011 e 2012, sia, per il resto del mondo, l'area geografica target per investimenti finanziari e industriali. Nonostante nel panorama mondiale dell'm&a sia sempre più rilevante l'attività condotta da alcuni paesi emergenti e molti stati europei abbiano da tempo intrapreso fitte relazioni commerciali con questi, l'Italia risulta ancora poco presente nelle operazioni cross border internazionali. Alcuni player asiatici, in primis Cina e Giappone, si sono ritagliati un ruolo primario nello scenario globale dell'm&a. La Cina nei primi anni 2000 era praticamente assente sul mercato dell'm&a cross border, con un numero di operazioni annue compreso tra 30 e 50 e un controvalore che ha raggiunto i 10 miliardi di dollari solo nel 2005. Tra il 2011 e il 2012, invece, ha realizzato 646 transazioni oltre i confini nazionali per un controvalore superiore a 100 miliardi, di cui ben 90 miliardi investiti fuori dal continente asiatico. Discorso simile anche per il Giappone che, negli ultimi due anni, grazie anche all'apprezzamento dello yen, ha realizzato all'estero circa il 40% della propria attività di m&a. Tornando all'Italia, nonostante le attività di finanza straordinaria al momento siano molto contenute, riteniamo che esistano delle opportunità da sfruttare nel breve-medio termine. Il sistema bancario, in primo luogo, deve sostenere queste iniziative: mentre le grandi banche commerciali italiane hanno incrementato l'esposizione verso il debito sovrano, a discapito dei prestiti alle imprese, le banche estere e le banche di credito cooperativo continuano a essere possibili fonti di finanziamento per le operazioni. In secondo luogo, i fondi di private equity, nonostante le difficoltà nella raccolta connesse alla crisi, dispongono al momento di un'ingente liquidità da investire e si osserva un crescente orientamento verso transazioni di limitate dimensioni. Una terza strada è rappresentata dal costante incremento della liquidità presente in molte grandi imprese italiane, stimata in oltre 99 miliardi di dollari, negli ultimi 5 anni. La principale motivazione risiede nelle condizioni macroeconomiche recessive italiane che certamente non favoriscono lo slancio verso investimenti nell'economia reale da parte degli imprenditori, i quali preferiscono accumulare ricchezza in attesa di tempi migliori anche per operazioni di acquisizione. Il limitato impatto attuale dell'm&a sull'Italia si può osservare dal peso delle operazioni delle nostre aziende in qualità di acquirente sul pil del nostro paese, pari nel 2011 all'1,4%, contro il 5,3% della Spagna e il 4,2% della Francia. Infine, svolgendo una prima analisi settoriale, emerge come l'Italia sia ancora specializzata principalmente in settori low tech e come siano estremamente limitati gli investimenti in digital company. Numerose sono state, invece, le operazioni condotte in settori tipici del Made in Italy, quali alimentare e fashion, ma troppo spesso in questi ambiti l'Italia è risultata preda di acquisizioni estere.