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Chi detta la legge dello stile italiano

, di Giorgio Sacerdoti
La tutela del made in è il campo di battaglia tra paesi, aziende, settori merceologici e istituzioni europee e non. Dal Chianti all'iPad fino agli orologi svizzeri, ogni prodotto ha le sue regole
Giorgio Sacerdoti

La battaglia per il made in Italy è diventata impegno per valorizzare qualità, innovazione, buon gusto quali caratteri dei nostri prodotti, associati all'italian style. La definizione legale di cosa si intenda per un prodotto fatto in Italia quindi non è decisiva, perché quello geografico merceologico non è l'unico criterio. Non a caso marchi come Armani a Tod's valorizzano il loro nome: il brand vive della reputazione associata al nome del produttore, cui in questi casi è associato lo stile italiano. Per le fasce medie del mercato e a tutela dalla contraffazione, la protezione giuridica è comunque importante. Molti nostri produttori ritengono fondamentale poter obbligare il produttore straniero, soprattutto di paesi noti più per il basso costo che per la buona qualità, di indicare l'origine del loro prodotto. Se ciò induca il consumatore a preferire il nostro prodotto, anche se più caro e a prescindere dalla qualità è però dubbio. Basti pensare al made in Germany. Imposto dalla Gran Bretagna prima della guerra 1914-18 per dissuadere il consumatore inglese dal comprare prodotti tedeschi, divenne poi un segno dell'eccellenza delle produzioni tedesche.

Comunque sia, la materia è di competenza europea e non più italiana, tant'è che una nostra leggina del 2010, che obbligava i prodotti moda e arredo venduti in Italia a indicare il paese di produzione, fu bloccata dalla Commissione europea. Il nord Europa è da sempre contrario all'obbligatorietà dell'indicazione d'origine, considerata protezionistica. Inoltre l'origine dovrebbe applicarsi al prodotto importato così come a quello fabbricato nella Ue: l'indicazione sarebbe dunque made in Europe e non made in Italy, una indicazione di scarso vantaggio per i nostri produttori. Sempre più i prodotti poi sono fatti in più paesi, sicché il prodotto indicato come nazionale contiene spesso un'importante componente straniera. I requisiti legali del made in diventano così oggetto di una battaglia tra settori, e aziende, diversamente dipendenti o delocalizzate all'estero. Si veda il caso della Svizzera dove si è deciso che un orologio può definirsi swiss made con una componente non elvetica fino al 40%. Ancora: l'iPad è importato negli Usa dalla Cina, un import che pesa non poco sulla bilancia dei pagamenti verso la Cina. Ma è chiaro che esso incorpora al 100% la ricerca fatta in California da Apple.

Tutto ciò spiega perché neanche il Parlamento europeo sia riuscito a sbrogliare la matassa e a convincere il Consiglio europeo a varare una normativa in materia. L'ultimo sviluppo è la proposta della Commissione di inserire l'origine come uno dei requisiti della sicurezza e tracciabilità di tutti i prodotti nel prossimo regolamento europeo in materia. Inoltre, le regole del Wto consentono che i paesi impongano il requisito del made in purché con modalità non discriminatorie. Di una particolare tutela godono poi le denominazioni di vini e alcolici legati alle caratteristiche dell'area di produzione: è vietato chiamare Chianti o Champagne un vino o spumante non prodotto nella zona tradizionale. La richiesta dell'Ue per allargare questa tutela ad altri prodotti alimentari tipici è stata invece osteggiata dai paesi (come Canada e Australia) dove i nostri emigrati si sono messi a produrre le specialità delle loro terre d'origine.