Cento anni di intreccio fra politica ed economia
Trent'anni fa, Franco Amatori (Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico) ha pubblicato un articolo, da più parti definito pionieristico, sulla Business History Review (Fall 1980) della Harvard Business School, dal titolo Entrepreneurial Typologies in the History of Industrial Italy. Venivano individuate tre tipologie: una "genovese", dalla città di riferimento del blocco siderurgico-cantieristico-armatoriale che sin da subito dopo l'Unità si è avvalso delle protezioni, dei sussidi e dei salvataggi da parte dello Stato, una "milanese", più orientata al mercato, all'esportazione e all'innovazione, ed una terza ibrida, rappresentata soprattutto dal fondatore della Fiat Giovanni Agnelli, il quale si è affermato non disdegnando le protezioni, le commesse, i favori dello Stato, ma segnalandosi senz'altro come un imprenditore schumpeteriano, il primo a comprendere che l'automobile non era un giocattolo per ricchi ma un bene di consumo durevole per una domanda di massa.
Più di trent'anni dopo Amatori torna sul luogo del delitto (Entrepreneurial Typologies in the History of Industrial Italy: Reconsiderations, in Business History Review 85, Spring 2011, 151-180, doi: 10.1017/S0007680511000067) per rivisitare i temi relativi all'imprenditorialità considerati nel precedente lavoro. Vengono confermate e più articolate le tre tipologie precedenti: ad esempio a Giovanni Agnelli viene assimilato Guido Donegani, il grande fondatore della Montecatini, la maggiore impresa chimica italiana del XX secolo. E' necessario constatare però tre cambiamenti di grande rilevanza. Innanzitutto, l'imprenditore non ha più le connotazioni negative che lo caratterizzavano nella mentalità collettiva del nostro Paese. In secondo luogo, è necessario constatare l'enorme progresso della storia d'impresa italiana, culminato nell'iniziativa dell'Enciclopedia Italiana di un Dizionario Biografico degli Imprenditori, curato proprio dal gruppo di storici della Bocconi. Ma il cambiamento più importante è nell'evoluzione storica: l'articolo del 1980 prendeva in considerazione il periodo 1880-1960, il saggio di quest'anno arriva fino ai giorni nostri e analizza quindi il fondamentale ventennio 1960-1980, un nodo storico di enorme rilievo, in quanto dopo gli anni favolosi del miracolo economico l'Italia sembrava proiettata su posizioni di frontiera nell'economia mondiale; questo salto non è riuscito ed è probabilmente alle origini del declino odierno. Dall'angolo visuale della storia d'impresa appare evidente la presenza di un colpevole: lo Stato e la politica. Infatti, al culmine del successo, lo Stato imprenditore sorto in Italia negli anni Trenta avrebbe dovuto, come in altri Paesi, fare un passo indietro e dar corso a un processo di privatizzazione. Si è invece espanso, in parte notevole sulla base di criteri legati al consenso elettorale. D'altra parte lo Stato e la politica non hanno dato vita a quel quadro legislativo e istituzionale all'interno del quale può prosperare l'impresa. All'inizio degli anni Sessanta era assente in Italia l'autorità antitrust, mancava un'efficace protezione degli investitori in borsa, non venivano promossi investitori istituzionali e la legge bancaria, che non permetteva la presenza di una inhaus bank, si rivelava insufficiente. Di estrema importanza è il fatto che non venivano trovati adeguati canali istituzionali per contenere l'aspro conflitto sociale inevitabile portato del grande cambiamento avvenuto negli anni Cinquanta. Era in definitiva la sconfitta della grande impresa, sia privata che pubblica,e il fallimento di quest'ultima, sviluppata soprattutto al Sud, aveva come riscontro la terribile sfida allo Stato, almeno in tre regioni, da parte della criminalità organizzata. L'articolo non poteva evitare di prendere in considerazione quello che probabilmente è il più noto imprenditore italiano, Silvio Berlusconi, un imprenditore alla conquista dello Stato, come recita il paragrafo che gli viene dedicato. Non c'è dubbio che Berlusconi sia un imprenditore, lo ha dimostrato sia con i vasti e innovativi complessi residenziali realizzati, sia con le televisioni commerciali. Si è costantemente mosso, però, soprattutto in quest'ultima esperienza, come se le regole vigenti in tutti i paesi avanzati con i quali l'Italia si confronta (vedi antitrust) non esistessero, né nel presente né nel futuro.
Tuttavia dal disastro della grande impresa emerge la piccola impresa, spesso organizzata in distretti industriali, un territorio omogeneo dedicato alla produzione di un bene per la quale realizza una sofisticata divisione del lavoro orizzontale e verticale. Una forma di produzione che trova robuste radici nella storia italiana. Dai distretti industriali emerge a sua volta un "quarto capitalismo", ovvero una media impresa che li pone al suo servizio. Quarto capitalismo perché né piccola impresa né grande impresa pubblica o privata. Sono aziende che fatturano fra i 150 milioni ed il miliardo e mezzo di euro: ce n'è più di un migliaio in Italia. Esse attaccano una nicchia, ma una nicchia globale, venendo definite quindi multinazionali tascabili. Sono l'elemento che ci fa sperare di vivere non un declino ma una metamorfosi, all'interno di un sempre più auspicabile processo di integrazione europea.