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Cara finanza, pensa di piu' alla reputazione

, di Giampaolo Gabbi - professore di intermediazione finanziaria e assicurazioni della SDA Bocconi
Gli istituti e le assicurazioni dedicano poca attenzione agli strumenti di misurazione del rischio. E fanno male

Il rischio reputazionale delle imprese, di quelle finanziarie in particolare, ha ricevuto negli ultimi anni una crescente attenzione da parte degli studiosi, dei manager e delle autorità di vigilanza. Un'attenzione che è comprensibilmente aumentata con la diffusione globale della crisi. Gli studi evidenziano come i vantaggi generati dal miglioramento della reputazione sono la capacità di comunicazione sulla qualità dei servizi, l'attrazione delle migliori risorse umane, l'accesso alle migliori condizioni al mercato dei capitali e la capacità di condizionare la contendibilità del mercato.

Giampaolo Gabbi

Alcuni settori particolarmente regolamentati, e quello dell'intermediazione finanziaria e assicurativa più di altri, trovano un fattore discriminante della reputazione nel rispetto delle norme. Nonostante ciò, raramente ci si concentra sugli strumenti di misurazione del rischio. Ma è proprio la pressione regolamentare che agisce sulle decisioni degli intermediari a imporre l'approfondimento delle metodologie di stima anche delle eventuali perdite reputazionali. I criteri di valutazione del rischio reputazionale sono basati su metodi qualitativi e quantitativi. Tra i primi, l'approccio forse più noto, introdotto dal Reputational Institute, lega la reputazione alla percezione dei clienti misurata sulla base della qualità dei prodotti e dei servizi; della performance e le prospettive di crescita; dell'innovatività e la capacità di adattarsi ai mutamenti del mercato; della leadership; dell'ambiente di lavoro; della responsabilità sociale, l'eticità e l'impatto sociale dell'attività dell'impresa; della governance. Tra i modelli quantitativi vanno considerati l'approccio organizzativo, che si propone di misurare il capitale intangibile delle imprese; l'approccio contabile, che colloca la reputazione all'interno delle attività immateriali; l'approccio di marketing, che misura la reputazione sulla base del valore del brand della banca; infine, l'approccio finanziario, per il quale la reputazione degli intermediari quotati viene incorporata nel loro valore di mercato. L'ampia gamma di modelli di misurazione è generata dalla necessità di cogliere le numerose dimensioni di un fenomeno che difficilmente può essere confrontato con altri rischi le cui perdite sono più semplici da evidenziare. Questo spesso porta al paradosso che le stesse banche, pur colpite direttamente dalla perdita di valore reputazionale negli ultimi anni, non investono le risorse necessarie per proteggere e aumentare la percezione della reputazione. Ciò vale sia per la maggior parte delle singole istituzioni sia delle categorie sindacali. Stupisce come non sia patrimonio acquisito di top manager e amministratori come l'attività più rilevante (sia pure non esplicitata nel bilancio) sia proprio quella che permette di distinguere i servizi offerti che si caratterizzano come credence good, cioè beni che dipendono dalla fiducia degli stakeholder.

Una risposta alla perdita di valore delle imprese bancarie seguito ai fenomeni che hanno generato e alimentato la crisi finanziaria deve passare attraverso l'applicazione di modelli di stima del rischio reputazionale e l'adozione di soluzioni gestionali volte a determinare l'impatto che questo può avere sulla redditività, l'adeguatezza patrimoniale, nonché sulla protezione della funzione economica svolta dalle banche nel sistema economico.