A caccia della vite dimenticata
Il vino è fenomeno culturale, legato alla valorizzazione del territorio, alle tradizioni e alla storia. Dato questo punto di partenza, è più facile comprendere perché Gualberto Grati, laureato alla Bocconi con una tesi su “I vini toscani nel XVIII e XIX secolo” e impegnato attualmente nell’azienda di famiglia che da cinque generazioni produce vino e olio nella zona del Chianti Rufina, si sia dedicato a un progetto così singolare: riscoprire, all’interno delle vigne dell’azienda, vitigni sconosciuti oppure conosciuti e ormai abbandonati, per ricostruire, come dice con linguaggio specialistico lo stesso Grati, “il germoplasma” delle aziende di famiglia. Nella ricerca sono state in seguito coinvolte anche altre imprese familiari.
“Il lavoro, svolto in collaborazione con il docente dell’Università di Firenze Roberto Bandinelli”, racconta Grati, “consiste nel passeggiare nelle vigne cercando viti che destino il nostro interesse, le quali vengono poi ‘cartellinate’ riportando le caratteristiche principali e infine fotografate. La scelta”, continua Grati, “cade di solito su viti rare o sconosciute, oppure su varietà conosciute ma un po’ diverse dall’usuale”.
L’idea è legata strettamente all’argomento della tesi di laurea e nasce dal desiderio di Grati di ricostruire la storia delle aziende di famiglia e del territorio del Chianti Rufina dal punto di vista agronomico.
“Il Chianti Rufina è una zona di piccole aziende”, spiega Grati, “noi per esempio abbiamo circa 150 ettari dedicati al vino e 30 all’olio. La particolarità della nostra azienda è di avere viti molto vecchie, alcune di oltre 70 anni. Mio nonno, infatti, non acquistava nuove viti dai vivaisti, ma si limitava a comprare il portainnesto facendo realizzare l’innesto da persone specializzate che utilizzavano vecchie viti della zona”.
Per capire il perché certi vitigni siano stati dimenticati bisogna ripercorrere la storia della viticoltura e Grati, in questo, è una vera enciclopedia: “Nel 1800 arrivarono dagli Stati Uniti tre malattie, l’oidio, la peronospora e la fillosserra, che determinarono una grande erosione genetica e una forte selezione. Negli anni ’60 del Novecento, invece, fu il Ministero a stabilire quali varietà dovessero essere coltivate in ogni singola provincia, determinando quindi l’accantonamento di quei vitigni che non rientravano nell’elenco, cosiddetti vitigni minori poi del tutto dimenticati”.
Per adesso è soprattutto un lavoro di ricerca, quello di Grati e Bandinelli, in futuro però il progetto potrebbe avere evoluzioni: “Il primo passo è quello della conservazione”, spiega Grati, “poi si penserà a una possibile reintroduzione di alcuni vitigni per creare un legame con il passato. Non credo che al momento ci sia ancora la massa critica per riproporre tali vitigni, i denigratori sostengono infatti che i vitigni ‘minori’ siano rimasti esclusi dal sistema produttivo per ragioni valide, ma io non sono d’accordo. Si deve infatti considerare”, continua, “che le logiche produttive degli anni 50, 60 e 70 erano diverse, molto più quantitative di quelle attuali, maggiormente improntate alla qualità.
C’è, secondo me, spazio per un prodotto di nicchia fortemente legato alla valorizzazione del territorio”.