Attenti al leader!
Due convinzioni sembrano rafforzarsi in imprenditori e manager. In primo luogo, la durezza della crisi è destinata a selezionare le imprese migliori. In secondo luogo, il contesto economico sembra privilegiare il ruolo delle imprese familiari, capaci più di altre di concentrarsi su una visione di lungo termine.
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Alessandro Minichilli |
Queste considerazioni rispecchiano i dati della quarta edizione dell'Osservatorio Aub (Aidaf, Unicredit, Bocconi e Camera di Commercio di Milano) su tutte le imprese familiari italiane medio-grandi, ponendo tuttavia un interrogativo di fondo. Considerato il ruolo decisivo che si ritiene le imprese familiari italiane possano avere in futuro, ci si chiede di quali strutture di governance e di leadership tali imprese debbano dotarsi per superare alcune resistenze culturali all'apertura e all'evoluzione dei vertici aziendali. In tal senso, i dati dell'Osservatorio forniscono alcune importanti indicazioni e scardinano alcune false convinzioni. Anzitutto, è falso che esista un modello di governance superiore ad altri: sono dunque infondate le critiche a imprese con modelli di governo semplici e snelli. Al contrario, la varietà dei modelli di governo (amministratore unico, a.u., senza cda; leadership individuale o collegiale con a.d. o co-a.d. familiare o non familiare, e con vario grado di apertura ai consiglieri esterni nel cda etc.), rispecchia la continua ricerca del giusto fit tra modello di governo e strategia aziendale. Dall'esperienza dell'Osservatorio Aub appare chiaro come i modelli di governo semplici siano più adatti (e più performanti) in imprese con strategie più semplici, mentre i modelli più complessi si addicano a imprese con ambizioni di crescita, o con compagini proprietarie più articolate. Ad esempio, i modelli con un a.u. sono tipici delle imprese più piccole e con compagine sociale ristretta (meno di 3 soci), mentre i modelli di leadership collegiale sono diffusi in imprese medie, ma con proprietà più allargata (più di 8 soci) rispetto alle imprese caratterizzate da un unico leader (che, in media, contano 5 soci). Dunque, è falso sostenere che la scelta di un modello di vertice collegiale rifletta solamente l'incapacità di scegliere un unico leader; al contrario, la scelta di un vertice collegiale sembra piuttosto riflettere il pluralismo proprietario, e possa (se ben disegnato) rappresentare un apporto di competenze e non solo di conflittualità tra i soci gestori.Inoltre, è falso sia che i leader familiari facciano sempre bene alle loro imprese, sia che invece occorra favorire un massiccio inserimento di leader esterni alla famiglia. La superiorità di un leader familiare o esterno sembra dipendere dal tipo di impresa, sia in termini di concentrazione della proprietà che di modello di leadership. In particolare, la leadership esterna sembra garantire un apporto fondamentale nelle imprese con una compagine sociale allargata, ma generare attriti quando la proprietà è concentrata, soprattutto nei casi in cui un leader non familiare sia da solo alla guida dell'impresa. Alla luce di queste interpretazioni, emerge come la vera differenza tra leader familiari e non consista nella maggiore variabilità di risultati economico-finanziari collegata all'inserimento di un leader esterno alla famiglia proprietaria, rispetto alla scelta più conservativa di una leadership familiare. Con ciò non si vuole infondere eccessiva prudenza negli imprenditori e nelle loro famiglie: rimanere ancorati a un modello di vertice familiare potrebbe infatti frenare l'evoluzione dell'impresa. La vera transizione culturale non è dunque quella di dotarsi a tutti i costi di un modello di governo complesso e/o con ampia presenza di soggetti esterni alla famiglia, quanto piuttosto abituare le famiglie imprenditoriali a una più attenta analisi dei loro bisogni, attuali e prospettici.