Arte, musica e cucina. Com'è soft l'immagine internazionale dell'Italia
Attrazione di investimenti, di talenti e di visitatori sono obiettivi che ogni territorio persegue per migliorare il proprio posizionamento internazionale; le leve utilizzate per raggiungerli sono legate all'identità competitiva. Sempre più le nazioni, le regioni, le province, le città sono stimolate a porre in atto iniziative di marketing territoriale, o di diplomazia pubblica, come suggerisce Simon Anholt, lo studioso inglese autore di L'identità competitiva. Il branding di nazioni, città, regioni (Egea, 2007, 182 pagine, 18 euro); tuttavia, il posizionamento di un territorio e la sua capacità di branding non sono il mero risultato di una campagna di comunicazione, ma di una strategia coerente che ha nell'identità competitiva il suo punto di partenza. Lo stesso Anholt costruisce un Nation Brands Index che misura l'immagine delle nazioni e che, nell'ultima edizione, vede l'Italia settima al mondo, ma in declino.
Paola Dubini, professore associato di economia aziendale alla Bocconi, ha coordinato l'Osservatorio attrattività del sistema paese, realizzato in collaborazione con la Fondazione italiana Accenture. Anche lei, per sensibilizzare al tema dell'attrattività, ha compilato una classifica delle province italiane a partire da indicatori strutturali.
I due concordano: più che le classifiche, conta il lavoro non solo degli amministratori pubblici, ma dell'intero sistema paese.
Per quanto in declino, l'immagine dell'Italia all'estero, secondo le rilevazioni di Anholt, rimane buona. E invece da noi si susseguono soprattutto le lamentele. Ci vediamo peggiori di come ci dipingono gli altri?
SIMON ANHOLT All'estero non si ha l'impressione che gli italiani abbiano una cattiva immagine del proprio paese. Anzi, sembrano convinti di avere la migliore immagine del mondo e mostrano di essere esterrefatti se qualcosa, in questa immagine, non va. Come se fosse un dono di Dio e non si potesse fare nulla per rovinarla. A contribuire a questa percezione c'è soprattutto il turismo; chi ne ha avuta esperienza diretta ha la sensazione di un'Italia autocompiaciuta. Gli italiani più visibili, inoltre, a partire dai politici, non danno l'idea di dare molta importanza alla percezione degli stranieri. Qui vedo dell'autoreferenzialità.
PAOLA DUBINI Più che di autocompiacimento, parlerei di un certo fatalismo, che deriva dalla consapevolezza di quanto sia difficile cambiare le cose in questo paese. Così difficile da non provarci neppure. Sono meno d'accordo sull'autoreferenzialità, almeno nelle intenzioni. Gli italiani sono esterofili, l'attenzione a quanto accade fuori Italia è testimoniata dalla mole di traduzioni di libri, dall'intensità degli scambi commerciali; purtroppo talvolta si osservano modelli alternativi a quello italiano, ma non li si analizza adeguatamente, né si è abbastanza attenti agli ambiti di applicabilità, si utilizzano le differenze come scusa o si tenta l'imitazione acritica. Nei fatti quindi, l'osservazione di modelli alternativi è più formale che sostanziale.
In definitiva, però, nessuno annovererebbe più l'Italia tra i paesi che contano.
ANHOLT A creare la sensazione di separatezza contribuisce anche la lingua. Italiani e spagnoli sono i peggiori parlatori di inglese e sembrano messi da parte nei processi decisionali importanti, presi nella sfera anglofona. Un provvedimento semplice e di provata efficacia sarebbe quello di sottotitolare, anziché doppiare, i film. Ma il punto è che la stessa opinione pubblica non vuole che l'immagine dei paesi cambi, gli anglosassoni vogliono vedere in Italia un po' di amabile caos e innocua incompetenza, anche per bilanciare punti di forza dirompenti come i beni storici, i paesaggi, la moda. L'immagine di un paese è, spesso, qualcosa che viene appiccicato da un altro paese, culturalmente dominante. L'immagine di un'Inghilterra in equilibrio tra passato e presente, affezionata a simboli come la regina, ma con il vizio di ficcare il naso negli affari altrui, per esempio, è costruita dagli americani e venduta al resto del mondo.
DUBINI Ci sono paesi abituati a vedersi nel confronto internazionale e attenti a quello che fanno, come la Francia, da sempre gelosa dei simboli che creano un'identità, a partire dalla lingua. Altri paesi, e l'Italia è tra questi, sono meno attenti. Mentre le aziende a marchio forte sono ossessivamente preoccupate da ciò che gli altri pensano di loro, i territori ci stanno arrivando solo per gradi, spesso spinti dal desiderio di attirare investimenti o turisti. Buona parte dell'immagine che un paese dà di sé deriva dall'immaginario costruito dalle aziende dei settori culturali. Per gli stranieri l'Italia è quella rappresentata dai film neorealisti e da quelli di Fellini.
ANHOLT Eppure la cultura italiana rimane attuale, così come le marche italiane. Grazie a Prada e Gucci o ad Andrea Bocelli l'idea della qualità italiana persiste, mentre altri paesi non hanno la stessa immagine di cultura. Non ce l'ha la Germania, per esempio, se si eccettua la città di Berlino. Un altro fattore forte del brand Italia sono gli italiani: hanno un forte carattere nazionale che si vede, si riconosce e spesso si ama.
Quella che descrivete sembra una situazione senza troppe vie di uscita.
DUBINI La via di uscita è la differenziazione, importante soprattutto in un momento di deriva globalizzante. Se non sei tu quello che massifica, devi differenziarti in modo spiccato e questo processo, per l'Italia, non può che derivare dalla cultura nei suoi vari aspetti, che deve essere alimentata e mantenuta viva.
ANHOLT E sono questi i punti di forza percepiti all'estero. L'opinione pubblica può semplificare o esagerare, ma rispecchia sempre in qualche modo la realtà.
Qual è il ruolo delle imprese nella creazione dell'immagine di un paese?
ANHOLT Dipende dal paese. Per chi ha marche internazionali, come l'Italia, può essere il fattore principale. Se queste marche mancano, le imprese sono del tutto ininfluenti. Nella creazione dell'immagine di un paese c'è una doppia audience straniera: gli esperti (politici, giornalisti, investitori, diplomatici eccetera) e la gente comune. Mentre il governo parla sempre solo ai primi, è la gente comune ad avere le opinioni più forti, e le marche contribuiscono a queste opinioni.
Su che cosa si può, allora, agire per cambiare, in meglio, l'immagine dell'Italia?
DUBINI Si innesca un processo di cambiamento solo se si ha un'idea forte di dove andare. In Italia esiste un dibattito sull'attrattività, sulle identità competitive, ma le imprese si sono dimostrate più pronte al cambiamento rispetto alle istituzioni. Si sono interrogate sulla sostenibilità economica dei loro modelli di business in settori esposti alla concorrenza dei paesi emergenti e si sono mosse di conseguenza. In quanto all'identità competitiva in senso proprio, invece, l'Italia vive in ritardo rispetto a paesi limitrofi fenomeni - come ad esempio l'immigrazione - destinati inevitabilmente ad avere un effetto sulla identità competitiva del paese. Se la pizza rimane un simbolo di italianità, non possiamo ignorare che i pizzaioli sono tutti egiziani. Così, è vero che la nostra reputazione può essere costruita da altri, ma è nostra responsabilità gestirla. Le risorse che abbiamo ricevuto in eredità sono sempre meno fonti scontate di rendita, non c'è nessuna garanzia che siano per sempre se non ci investiamo seriamente. In definitiva il vantaggio competitivo è sempre frutto di lavoro, di energie, di investimenti.
ANHOLT Lasciatevi provocare, in quanto italiani: perché volete cambiare? Da straniero, seppure con qualche legame con l'Italia, penso che l'Italia possa cominciare a rivedere la storia nazionale, ora che anche qui le etnie si stanno mescolando. Il rischio è quello di fare come la Francia, la cui immagine europea, bianca, cristiana e maschile non è più al passo coi tempi ed esclude, in modo così irreparabile, una tale quantità di persone da suscitare le rivolte delle periferie. L'Italia rischia, inoltre, di passare di moda, perché non ha mantenuto il passo in alcuni aspetti che si rivelano sempre più importanti, come l'attenzione all'ambiente, le tecnologie e la qualità della formazione. Su quest'ultimo aspetto pesa ancora la questione linguistica. Adottare l'inglese non significa rinunciare alla propria identità, ma dimostrare di utilizzare quello che è diventato il sistema operativo dell'economia mondiale. Rimane, però, il problema dell'italiano visto all'estero come un amabile clown. Ho ascoltato la testimonianza di diverse donne d'affari italiane disperate dall'attesa di divertimento che sembra pervadere un meeting prima del loro intervento. Da questo punto di vista, il comportamento e le battute di Silvio Berlusconi, quando era premier, non sono stati d'aiuto. Il risultato è un'immagine in declino, unica tra quelle dei paesi europei avanzati, dovuta anche a un brand troppo soft, centrato solo su cultura, moda e altri aspetti simili. Tutto il contrario della Germania, che soffre di un brand troppo hard. Verrebbe quasi da suggerire una fusione...
D'altra parte, la realtà è proprio quella.
DUBINI La riflessione sull'identità competitiva richiede prese di posizione coraggiose rispetto ai propri punti di forza; spesso l'Italia ha un'immagine troppo femminile, mentre la globalizzazione esige comportamenti di grande determinazione, anche quando si mettono in luce risorse come il paesaggio, i monumenti, la buona cucina.
ANHOLT La Spagna sta facendo capire come si possa elevare un'immagine di questo genere.
DUBINI Ma mi chiedo quando questo miglioramento sarà effettivamente recepito dall'opinione pubblica. Purtroppo è più facile deteriorare l'immagine di un paese che elevarla.
ANHOLT La percezione segue sempre la realtà con un forte distacco temporale. A cambiare velocemente è, a volte, la realtà di contesto. È quello che vale per l'Italia in quanto a sensibilità ambientale, tecnologia e formazione: il paese non si è mosso, ma la rilevanza di questi temi è aumentata.
DUBINI Così i paesi finiscono per trovarsi fuori asse. Lo hanno recepito due mie colleghe in un'analisi degli articoli riguardanti l'Italia usciti nel mondo anglosassone nel giro di qualche anno. Con il passare del tempo non è che l'Italia fosse considerata migliore o peggiore di prima; era semplicemente sempre meno interessante e, perciò, ignorata, salvo alcuni cliché, anche positivi, come la buona tavola e i buoni vini.
ANHOLT D'altra parte, è comprensibile. Un canadese passerà, in media, quattro secondi l'anno a meditare sull'immagine dell'Italia, è normale che ci metta una vita a cambiare idea. Ma poi non vuole cambiarla, vuole avere delle certezze, non dei dubbi. Lo si è percepito chiaramente quando la percezione di sicurezza di città come Amsterdam e Stoccolma non è stata intaccata minimamente dagli omicidi di Theo Van Gogh e Anna Lindh. La reazione dell'opinione pubblica non è stata: "Allora sono meno sicure di quanto pensassimo", ma "Guarda cosa accade proprio lì, in una città così sicura". Non è poi così facile neppure distruggere la reputazione di un territorio.