Angelo Sraffa, il rettore che portò l’economia aziendale alla Bocconi
L'Angelo Sraffa che seppe innovare la didattica della Bocconi, chiamando l'eminente studioso Gino Zappa e affiancando così la finanza aziendale all'economia e alla giurisprudenza, e lo Sraffa fermo difensore della libertà e dell'indipendenza dell'ateneo nel clima teso e violento che anticipò la marcia su Roma e il Fascismo. Aspetti diversi e complementari di una figura, quella del rettore della Bocconi (1918-26), che sono stati ricordati ieri in un convegno organizzato dall'Istituto Javotte Bocconi e dall'Associazione "amici della Bocconi" e moderato dal presidente dell'Ateneo Mario Monti.
"La nostra università", ha sottolineato il presidente dell'Istituto Javotte Bocconi, Luigi Guatri, "è percepita come una realtà efficiente e proiettata verso il futuro, ma la Bocconi ha uno spirito che trova le proprie radici nella storia di tante persone che l'hanno vissuta con l'impegno del loro insegnamento". Guatri ha ricordato in particolare due episodi che hanno contraddistinto l'impulso di Sraffa come rettore dell'università: la chiamata di Gino Zappa, "che accettò a condizione di poter creare un istituto di finanza aziendale (che allora si chiamava ragioneria)", e quella di Fausto Pagliari, bibliotecario 'storico' dell'ateneo, dove rimase per trent'anni dal 1925 al 1951.
Uno ruolo, quello di Sraffa, di "organizzatore di attività culturali e non di semplice caposcuola o leader", ha spiegato Piergaetano Marchetti, giurista e prorettore alla governance in Bocconi. "Un'attività che ha creato la struttura e l'ambiente cha ha ospitato i più prestigiosi uomini di pensiero".
Il clima degli anni immediatamente successivi alla prima Grande Guerra è stato tratteggiato da Marzio Romani, ordinario di storia economica dell'ateneo. Clima segnato, in particolare, dall'aggressione del rettore Angelo Sraffa il 15 febbraio 1922 ad opera di un gruppo di studenti che contestavano la scelta dell'università di non tenere una sessione straordinaria di esami non consentita dal regolamento. Un episodio "che si sarebbe potuto chiudere senza conseguenze", ha spiegato Romani, "se non fosse stato per il provocatorio articolo che il quotidiano fascista Il Popolo d'Italia scrisse additando la condotta del rettore alla 'sistematica ostilità alle giuste rivendicazioni degli studenti ex militari'". Seguirono tutta una serie di prese di posizione a favore dell'aggressore e la situazione degenerò costringendo Sraffa a rivolgersi ad una stessa commissione d'inchiesta fascista per dirimere la questione. "Il documento che ne uscì è un piccolo capolavoro di diplomazia", che sostanzialmente assolse la ferma posizione del rettore, esaltando l'austerità dei valori guida dell'università. Quegli anni, tuttavia, sono carichi di tensione e "spingono Sraffa, nel '26, a lasciare la guida dell'università, anche a causa del suo manifesto antifascismo".
Ma la figura di Sraffa è stata ricordata anche per la sua importanza in qualità di studioso, tra Parma, Torino e Milano, da Gigliola di Renzo Villata e Francesca Pino, docenti della Statale di Milano e da Annamaria Monti, della Bocconi. Nella sua carriera accademica prima dell'arrivo in Bocconi, Sraffa si dedica ad un aspetto tanto importante quanto attuale del commercio: "Denuncia, in particolare, il pericolo della commistione tra lo stato legislatore e lo stato imprenditore", ha spiegato Villata, "sottolineando poi, a proposito del rapporto tra commercio e consumatori, come questi fossero poco tutelati dalla legislazione di allora e di come fosse ormai necessario un Testo unico sulle obbligazioni", ha aggiunto Annamaria Monti.
Il convegno è stata poi l'occasione per consegnare alla Bocconi, ad opera dello scrittore ed editorialista Mauro Langfelder, gli originali degli atti di acquisto della villa che Sraffa possedette a Marzio e dalla quale scrisse parte della sua più significativa corrispondenza, come la lettera a Luigi Einaudi, datata agosto 1919, nella quale sottolinea la sua volontà, da nuovo rettore, di riformare la didattica "procedendo per esperimento e col programma di non dire quel che si vuole fare, ma di fare quel che si può, dando poi in seguito l'ordinamento formale e il nome alle cose fatte".