Pil, l’ossessione anti global
Il vento anti-globalizzazione ha ripreso a soffiare, con forza. Chi semina questo vento raccoglie voti, qui da noi come oltreoceano. Chi invoca le buone ragioni della globalizzazione rischia invece di rimanere solo, vox clamantis in deserto. Ciò è a parer mio in parte inevitabile, non tanto perché i vantaggi della globalizzazione sono difficili da spiegare, quanto piuttosto perché sono difficili da misurare. Per ironia della sorte, gli economisti hanno dapprima sviluppato raffinate argomentazioni libero-scambiste, per poi trovarsi a doverle dimostrare utilizzando indicatori statistici che li smentiscono puntualmente, perché del tutto inadeguati a misurare i benefici del libero scambio. Ma c'è di peggio. Questi indicatori registrano un peggioramento della performance economica proprio laddove la globalizzazione dispiega al meglio i suoi effetti.
L'esempio più rilevante è quello del pil. Le statistiche sull'andamento del pil reale condizionano l'opinione pubblica, il dibattito politico e la sorte dei governi: è improbabile che un governo in carica non sia rieletto quando il pil reale cresce a ritmo sostenuto, e viceversa quando il pil è stagnante. I dati sul pil non sono quindi una curiosità statistica. Sarebbe pertanto cruciale, per la buona causa della globalizzazione, che esso ne misurasse accuratamente i benefici.
Purtroppo così non è. In nuce, il motivo è che i benefici della liberalizzazione commerciale operano principalmente attraverso due effetti: da un lato, una variazione dei prezzi relativi, con conseguente aumento delle opportunità di arbitraggio sui mercati internazionali; dall'altro, un aumento della varietà di beni intermedi e beni finali disponibili per la produzione e il consumo (il cosiddetto effetto varietà). Entrambi gli effetti comportano un aumento della spesa reale, cioè delle possibilità di consumo di un paese, e quindi del suo benessere. Questi effetti non lasciano però traccia sul pil. Ciò in quanto, per costruzione, il pil reale non registra né gli effetti reali di variazioni dei prezzi relativi, né l'effetto varietà. Non solo, nella misura in cui la globalizzazione induce gli effetti sperati, e quindi determina una riallocazione delle risorse produttive che aumenta l'efficienza del sistema economico, paradossalmente, il pil reale si riduce. Ciò in quanto spesa e pil reali possono divergere in modo sostanziale in economia aperta, ma solo la prima rileva per il benessere economico.
Non deve allora sorprendere che chi invoca, nell'interesse generale, il libero scambio, faccia spesso la parte dello stupido. Un esempio su tutti: le svalutazioni competitive. La sottovalutazione del cambio consente a un paese di conquistare quote del mercato mondiale a spese dei propri partner commerciali. C'è ampia evidenza che questa pratica protezionistica è premiante in termini di tasso di crescita del pil reale, e ciò costituisce un potente incentivo per i governi a utilizzarla per stimolare la crescita. E tuttavia di questo tipo di crescita c'è poco da andare orgogliosi, perché si associa generalmente a una riduzione della spesa reale e quindi all'impoverimento del paese. I cinesi sarebbero per esempio più felici con un tasso di crescita più basso e un tasso di cambio meno sottovalutato. Purtroppo, però, finché l'opinione pubblica sarà ossessionata dal pil, sarà difficile convincerla che le cose stanno davvero così. La becera voce di chi attribuisce all'euro forte, alla Cina o al Wto la causa dei nostri guai, avrà facilmente il sopravvento.