
Perché i poveri votano a destra (e smettono di chiedere più uguaglianza)
C’è un paradosso che attraversa la politica oggi. Le disuguaglianze crescono, ma la domanda di redistribuzione diminuisce. Le classi popolari, storicamente legate alla sinistra, votano sempre più a destra. E le campagne elettorali si vincono con battaglie simboliche su religione, immigrazione e “valori tradizionali” più che su salari e welfare.
Un nuovo studio (“Presidential lecture: identity politics”) firmato da Nicola Gennaioli e Guido Tabellini dell’Università Bocconi, in uscita su Econometrica, offre una spiegazione potente e spiazzante: non siamo più divisi in classi, ma in identità culturali. Ed è su queste che si gioca la partita della democrazia.
“La polarizzazione politica non ruota più attorno alla ricchezza o al reddito”, afferma Gennaioli, professore del Dipartimento di Finanza della Bocconi. “È diventata una guerra tra visioni opposte della società: da un lato i progressisti multiculturali, dall’altro i conservatori legati a identità locali, religiose e tradizionali”.
Il cambio (endogeno) di identità
Il cuore del modello è semplice e radicale: le persone scelgono l’identità che sentono più rilevante nei conflitti sociali del momento. Quando l’economia domina l’agenda, ci si divide in classi. Ma quando la cultura diventa più saliente – ad esempio per via dell’immigrazione o dei temi etici – ci si riconosce in gruppi culturali contrapposti.
Questa scelta, tuttavia, non è fissa né casuale: è una risposta dinamica ed endogena alle tensioni sociali e politiche. Il modello spiega che gli individui si identificano con il gruppo che percepiscono come più in conflitto con l’“altro” e con cui sentono maggiore affinità. Una frattura culturale più visibile rispetto a quella economica può spingere anche un operaio precario a sentirsi parte di un’identità conservatrice piuttosto che di classe.
“Chi si identifica come ‘bianco, cristiano, tradizionalista’ finirà per dare meno importanza alla redistribuzione e più alla difesa dei propri valori. Anche se è povero”, sottolinea Tabellini, professore del Dipartimento di Economia.
Una strategia (costosa) di propaganda
Il modello mostra anche come i partiti politici abbiano capito – e sfruttato strategicamente – questo meccanismo. Invece di proporre programmi economici, investono risorse nella propaganda identitaria, amplificando gli stereotipi culturali che definiscono il proprio “noi” contro “loro”: il cittadino locale contro l’immigrato, il lavoratore tradizionale contro l’élite progressista.
Nel modello, questa operazione ha un nome preciso: “spargere stereotipi”. È una forma di persuasione politica che costa risorse e produce polarizzazione: rafforza l’identificazione nei gruppi culturalmente definiti e rende le posizioni politiche sempre più estreme.
“La propaganda non punta a convincere, ma a radicalizzare”, osserva Gennaioli. “Ogni slogan estremo spinge gli avversari a essere ancora più estremi. E la politica si trasforma in guerra di religione”.
Fiducia e radici storiche
La capacità dei partiti di influenzare l’identità non è però uniforme. Il modello tiene conto del fatto che i partiti sono storicamente connessi a gruppi sociali specifici: la destra con le classi alte e i conservatori religiosi, la sinistra con i lavoratori e i progressisti. Questo legame condiziona la fiducia con cui gli elettori ricevono le promesse e la propaganda di un partito: un conservatore sarà più ricettivo ai messaggi della destra, un progressista a quelli della sinistra. E così si rafforzano le appartenenze, e con esse la polarizzazione.
Il sondaggio che ha innescato il modello
A fondamento dell’intera teoria, gli autori pongono un nuovo sondaggio su 3.000 cittadini statunitensi, rappresentativi della popolazione americana, che mostra come la maggioranza non si identifichi più in termini economici, ma culturali. E che queste identità – conservatrice o progressista – determinano credenze e posizioni su welfare, tasse, aborto, immigrazione.
Chi si definisce “bianco, cristiano, tradizionalista” è più ostile agli immigrati e meno favorevole alla redistribuzione, indipendentemente dal reddito. Chi si riconosce in una cultura progressista, “secolare, multiculturale e cittadino del mondo”, ha posizioni opposte. E vota di conseguenza.
La lezione del “China Shock”
Il modello viene poi testato empiricamente su un caso concreto: quello del “China shock”, ovvero l’impatto della concorrenza cinese sulle aree industriali statunitensi. I dati, sia dai sondaggi che dai discorsi pronunciati al Congresso, mostrano che nelle zone più colpite, gli elettori culturalmente conservatori hanno ridotto la richiesta di redistribuzione e aumentato la domanda di politiche anti-immigrazione. Proprio come il modello prevede.
Non è stato un effetto retorico di Trump: il riallineamento era già in corso. E ha prodotto un risultato potente e duraturo: un’alleanza tra élite economiche e masse culturalmente conservatrici, che spiega l’ascesa dei populismi di destra anche in contesti di crescente disuguaglianza.
Un mondo diviso (ma non più per reddito)
La tesi di Gennaioli e Tabellini non si limita agli Stati Uniti. Spiega anche il riorientamento dei partiti in Europa, il successo di campagne identitarie contro l’“élite” progressista, e la crisi dei vecchi partiti socialdemocratici. È un tassello importante di una più ampia linea di ricerca – avviata dagli stessi autori con Giampaolo Bonomi nel paper Identity, Beliefs, and Political Conflict pubblicato in The Quarterly Journal of Economics (2021) – che esplora come le identità e le credenze plasmino il comportamento politico ben oltre gli interessi economici.
“La sinistra”, conclude Tabellini, “ha sottovalutato il fatto che la cultura può contare più del reddito. Ma finché insisterà a parlare solo di diseguaglianze, senza affrontare il terreno delle identità, continuerà a perdere proprio tra i suoi ex elettori”.