Banche. Niente futuro senza mercato
L'intervento da parte di diversi governi europei nel salvataggio delle banche solleva alcune preoccupazioni in tema di governance e assetti proprietari. L'intervento pubblico si è reso necessario per scongiurare il dissesto delle banche, che avrebbe effetti destabilizzanti sull'intero sistema economico. L'assenza di un impegno politico a garanzia dei debiti delle banche avrebbe certamente acuito la crisi: la mancanza di un'esplicita garanzia pubblica sui debiti bancari genererebbe in questa fase il panico, scatenando una corsa agli sportelli. Il peggio è che anche una banca sana, con i bilanci in ordine, subirebbe le conseguenze di una crisi di panico, che per definizione è irrazionale e i cui effetti quindi si abbattono sull'intero sistema.
Basti pensare alla preoccupazione che tutti noi nutriamo in questi mesi circa i risparmi depositati in banca: non ha importanza quale banca sia, è il fatto che siano nel sistema bancario che un po' ci toglie il sonno. E quando lo stato dichiara che nessuno perderà un euro, siamo sollevati, lasciamo (almeno in parte) i nostri soldi alle banche, che tirano un sospiro di sollievo.
Se l'intervento pubblico appare quindi inevitabile in questa fase, sono le conseguenze a medio e lungo termine che preoccupano. La presenza dello stato nel capitale delle banche produce effetti noti, evidenziati in un recente studio del Carefin, Centre for applied research in finance dell'Università Bocconi. Gli autori di questo studio (G. Iannotta, G. Nocera e A. Sironi) mostrano come le banche pubbliche siano più rischiose e inefficienti di quelle private. Poiché però godono di una protezione statale sono reputate più affidabili rispetto alle banche private, pur avendo bilanci peggiori. Il che falsa la competizione e annulla ogni forma di disciplina da parte del mercato: che incentivo ha il creditore di una banca che non può fallire, in quanto protetta dallo stato, a sanzionare il rischio eccessivo chiedendo un tasso di interesse maggiore?
Il mercato sembra sapere che lo stato non è poi un banchiere così bravo, perché appena si parla di nazionalizzazioni le azioni delle banche interessate crollano. Di recente qualcuno è tornato a sostenere che il credito e il risparmio sono funzioni di interesse pubblico, e come tali non assoggettabili alle regole del mercato. E poi, si osserva, dopo la crisi del 1929 la quasi totalità del sistema bancario italiano fu nazionalizzata, senza per questo impedire la crescita della nostra economia. In realtà, bisognerebbe chiedersi quanto sarebbe cresciuta con un sistema bancario privato: probabilmente di più e meglio. Nel quadro attuale l'intervento pubblico è imprescindibile, ma la nazionalizzazione sembra avere più costi (nel medio–lungo termine) dei benefici (nel breve termine).
La salvaguardia del sistema bancario di oggi non può avvenire sacrificando l'allocazione efficiente del credito e la concorrenza di domani. Esistono soluzioni transitorie meno invasive, ma non meno efficaci: l'acquisto da parte dello stato (a prezzi di mercato) dei titoli tossici posseduti dalle banche; oppure la garanzia pubblica sui debiti bancari. È vero che un sistema bancario pubblico difficilmente si sarebbe inceppato come oggi succede a quello privato. Certamente qualcosa non ha funzionato, ma la maggior stabilità dello stato-banchiere, cioè l'assenza di mercato, non può essere la risposta. Se nello sport si usa il doping, la risposta è in regole più severe e controlli più efficaci, non nella soppressione delle competizioni. Bisognerà quindi riflettere su nuove regole, ma prima bisogna far rientrare l'emergenza con strumenti efficaci (e transitori). Ben Bernanke, presidente della Fed, ha osservato che se c'è un incendio, prima si cerca di spegnerlo e poi si scrive il manuale antincendio.