Se la tassa è miope
I recenti provvedimenti varati dal governo con il decreto legge "manovra d'estate" per la correzione del deficit pubblico tendenziale hanno fatto leva, per la componente relativa alle misure fiscali, sulla cosiddetta Robin Hood tax. Essa consiste in un incremento del prelievo fiscale sugli utili eccezionali realizzati da imprese operanti in specifici settori di attività economica. Si tratta in sostanza di una redistribuzione di ricchezza a favore di alcuni soggetti che hanno patito una perdita di potere d'acquisto e un deterioramento del tenore di vita e che grava su quelle imprese che in un contesto di stagnazione sono riuscite a generare flussi consistenti di utili.
Il principale settore colpito dall'inasprimento fiscale è il comparto energetico (società petrolifere e produttori/distributori di energia elettrica) i cui attori hanno tratto beneficio dall'imponente rally del prezzo del petrolio. Se per questo settore gli eccezionali utili si riconducono a condizioni di mercato esogene al nostro sistema, non così è per gli altri soggetti colpiti dai citati provvedimenti: le banche, le assicurazioni operanti nel ramo danni e il settore immobiliare. Gli ingenti profitti sembrerebbero essere frutto di un pricing power collegato a un asimmetrico potere negoziale delle controparti.
La Robin Hood tax è assimilabile a una tassa di scopo, che trova ragion d'essere nel momento di particolare gravità in cui versa una nazione. Nel 1997 il governo laburista di Blair applicò un'imposta sugli inattesi profitti (windfall profit tax) generati dalle utilities di recente privatizzazione per poter finanziare la riforma del welfare. Negli Usa, fin dal lontano 1863 fu applicata una excess profit tax sui redditi straordinari in occasione della guerra di secessione, esperimento poi replicato nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale e durante la Grande recessione.
Negli anni '90, il legislatore italiano introdusse la dual income tax, sistema con il quale venivano applicate aliquote differenziate sugli utili normali e sul sovrareddito. Gli utili normali sono computati moltiplicando il capitale di rischio investito dagli azionisti per un tasso di rendimento espressivo della redditività media di settore. La differenza tra l'utile imponibile di periodo e l'utile normale corrisponde al profitto o sovrareddito. L'aliquota fiscale che gravava sugli utili normali era inferiore all'aliquota fiscale che colpiva il sovrareddito.
Tale gerarchia introduce un principio di progressività del prelievo in funzione della capacità di generare reddito. Essa viene di norma condivisa partendo dal presupposto che maggiore è il guadagno più che proporzionale deve essere il dazio pagato allo stato. Questo principio può essere condiviso se il sovrareddito trae origine da rendite di posizione o da imperfezioni nei mercati reali che inibiscono la concorrenza. Non così è di norma nelle moderne economie in cui la capacità delle imprese di competere sui mercati internazionali è frutto delle conoscenze, del know how detenuto e dell'immaterialità. Le competenze sedimentate nelle imprese sono fonte di innovazione e dischiudono l'opportunità di applicare un premium price e dunque di generare sovrareddito. Il sovrareddito è l'esito del riconoscimento da parte del compratore dell'eccellenza del venditore. Senza sovrareddito non esiste la creazione del valore e non esiste la crescita. Applicare aliquote più elevate sul sovrareddito significa penalizzare la componente più dinamica del sistema e disincentivare l'innovazione. Paradossalmente le imprese che distruggono valore, cioè quelle imprese inefficienti e caratterizzate da bassa redditività e dunque da sovrareddito negativo, verrebbero premiate dallo stato con un minore prelievo fiscale. Colpire i sovraredditi può apportare un beneficio effimero di breve periodo alle casse dello stato, mentre introduce distorsioni nel processo di allocazione del capitale con effetti opposti a quelli desiderati nel lungo periodo.