Quando i paesi in via di sviluppo diventano investitori
Una nuova mina vagante si è presentata sulla scena delle relazioni economico giuridiche internazionali nei mesi scorsi, quella di come far fronte all'altra faccia del capitalismo finanziario globale, che raccoglie capitali dalle fonti più disparate e li investe e disinveste su ogni sorta di mercati, nelle borse o direttamente in imprese per lo più per il canale dei fondi privati. La sfida è quella dei fondi pubblici accumulati da paesi emergenti grazie ai loro surplus commerciali, originati dalla vendita di materie prime, essenzialmente petrolio come per vari produttori mediorientali, oppure attraverso lo sbilancio a loro favore dell'import-export, come è il caso della Cina. Si parla di 2.500 miliardi di dollari che, al di fuori delle riserve valutarie di questi paesi (quelle investite per lo più in treasury bills Usa che sostengono il dollaro), fanno capo a enti nazionali di sviluppo o simili direttamente controllati dai vari stati. Quale è l'ottica di questi investitori e quali invece le opportunità e i pericoli per i mercati e i paesi di destinazione, che sono i mercati finanziari e le imprese dei paesi industrializzati? L'intento principale pare essere quello di fare oculati investimenti, capital gain e pingui dividendi; ciò implica diversificazione, capacità di seguire l'investimento e pone la scelta se gestire direttamente o, almeno in parte, affidarsi a gestori professionali, come quando la Cina ha investito 3 miliardi di dollari nel fondo Blackstone.
Questi investimenti fanno gola a gestori, imprese, regioni dei paesi industrializzati ed è aperta la corsa ad attirarli. D'altra parte i paesi più avvertiti hanno subito temuto i risvolti del condizionamento politico: uno stato, soprattutto della dimensione economica della Cina o dell'Arabia Saudita, non è un investitore come un altro. Da un momento all'altro l'oculato investitore commerciale può mostrare il volto della potenza politicamente motivata, con pericolo per la sicurezza nazionale (vedi il caso del rifiuto americano di consentire a Dubai di acquistare il controllo del primo operatore portuale Usa e alla Cina di comperare Unocal), oppure condizionare le scelte politiche del paese destinatario, per esempio minacciando un ritiro dei fondi. A ciò si aggiunge che i confini tra investimento statale, anche indiretto, e quello privato, ma da parte di imprese condizionate dal loro stato, non è facile da segnare, come il caso delle imprese russe del gas e del petrolio insegnano. La presenza di operatori pubblici nell'economia di mercato ci riporta ai tempi anteriori alle privatizzazioni occidentali: d'altra parte imprese come Enel, Eni, Electricité de France sono ancora controllate dallo stato.
Gli Usa non hanno esitato ad introdurre controlli preventivi sugli acquisti di imprese americane da parte di enti di stato. In Europa la questione è aperta. L'interesse nazionale invocato dagli stati dell'Unione ha guardato finora più all'importanza della impresa in vendita per l'economia locale (così la Francia con la Danone) che alle preoccupazioni geopolitiche, anche se l'acquirente era privato. La Commissione ha peraltro contrastato la tendenza a mantenere "golden share" pubbliche. Ora la Germania di Angela Merkel si vuole dotare di uno strumento per controllare i fondi esteri sovrani.
C'è il rischio di ritorsioni, ma soprattutto non dovrebbe essere la Comunità a definire regole e paletti uniformi, applicabili solo per operazioni di soggetti esterni al mercato unico? Quali debbano essere i paletti (soltanto la reciprocità?) e come gestirli è un nodo difficile da sciogliere, come è emerso sin dalla prima proposta di respiro europeo sul tappeto, quella relativa alle reti del gas. Tra alta politica internazionale e rispetto delle regole del mercato la partita è solo agli inizi.