No alla chiusura: la risposta comune di politiche diverse
Antica terra di emigranti, come ci ricorda la presenza di comunità di italiani in diverse parti del mondo, a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso il nostro paese ha cominciato a fare i conti con il fenomeno opposto, trovandosi a fronteggiare il problema, del tutto inedito, di una crescente immigrazione proveniente da paesi lontani. Pochi dati bastano a dar conto delle dimensioni del fenomeno: poco più di 200.000 nel 1981, gli stranieri residenti dieci anni dopo erano raddoppiati. Oggi, l'Istat calcola che in Italia gli immigrati regolari siano ormai 3 milioni (dati al 1° gennaio 2007), ma se si contano anche i clandestini si arriva a quasi 4 milioni, pari al 6,2% della popolazione complessiva (Caritas Migrantes, Dossier statistico 2007, www.dossierimmigrazione.it).
In assoluto si tratta di cifre in linea con quelle di altri paesi dell'Ue (senza contare che i paesi di più antica tradizione nel tempo hanno naturalizzato una quota rilevante di stranieri che se computati fra la popolazione immigrata ne eleverebbero la percentuale). Ciò non di meno oggi in Italia l'immigrazione è percepita come un'emergenza nazionale. Nel clamore mediatico, alimentato anche dall'eco di alcuni efferati fatti di cronaca, riesce difficile orientarsi. Pare tuttavia assodato che il senso di insicurezza sia molto forte e lo straniero sia percepito come una presenza minacciosa: una minaccia per l'occupazione, per l'identità nazionale e soprattutto per la sicurezza individuale e collettiva. Ma è davvero così?
Partiamo da un dato incontrovertibile: la società italiana ha bisogno degli immigrati. Si può discutere sul numero e l'entità dei flussi, ma non vi è dubbio che, come ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, «senza di loro il sistema Italia si bloccherebbe». E non si tratta solo delle badanti, essenziali per una società a forte invecchiamento (già oggi il 5% della popolazione è ultraottantenne), come attesta la rapidità stessa con cui si è imposto un lemma, badante, fino a pochi anni fa sconosciuto. Sono moltissime le mansioni svolte dagli immigrati in tutti settori dell'economia e basta pensare a quante volte nel corso di una giornata ci si imbatte in un lavoratore straniero per rendersi conto della superficialità di molti discorsi correnti.
Riconoscere la funzione economica dell'immigrazione non significa evidentemente negare l'esistenza di un problema di ordine pubblico, significa solo evitare indebite generalizzazioni, facili a sconfinare in posizioni inaccettabili di xenofobia e razzismo, come ha sottolineato in diversi frangenti la stampa estera.
Per dipanare le molte questioni poste dalla presenza dei migranti, molti residenti in Italia da diversi anni, non sarebbe inutile tenere conto dell'esperienza storica di altri paesi. Si vedrebbe che molti dei dilemmi odierni non sono nuovi e hanno trovato soluzioni diverse nel tempo e nei differenti contesti nazionali. Si pensi, ad esempio, alla questione della cittadinanza, un punto sul quale le esperienze storiche si dividono tra i paesi che privilegiano la residenza e quelli che invece insistono sui legami di sangue. Tuttavia, paure e timori non hanno impedito gli ingressi né scoraggiato il ricorso alla manodopera straniera ogniqualvolta se ne profilava l'opportunità.
Anche se oggi si registra una maggiore convergenza fra la legislazione dei vari paesi, l'Europa ha oscillato tra accoglienza e rigetto di volta in volta privilegiando politiche tese alla regolarizzazione, ai ricongiungimenti familiari e alla concessione di forme diverse di cittadinanza (fino al diritto di voto alle elezioni amministrative) e politiche repressive di espulsione e chiusura delle frontiere.
Di fronte alle sfide del presente credo si debba immaginare una strategia capace di contemperare rispetto delle leggi (un dovere a cui tutti e non solo gli stranieri sono tenuti), principi umanitari, esigenze economiche con l'obiettivo di costruire una società aperta e capace di valorizzare le differenze.
L'esatto contrario di quanto si proclama di voler fare.