Le proposte di alcuni politici italiani sono peggio delle scatole cinesi
Di riforme in materia di corporate governance delle società quotate ne abbiamo avute molte in questi anni. A partire dalla legge Draghi del 1998, passando per la cosiddetta legge sul risparmio del 2006, sino al recente decreto Pinza del 2007. Per tacere della copiosissima produzione regolamentare da parte delle diverse authority di settore, dalla Consob, alla Banca d'Italia, all'Isvap e così via. Ha pertanto suscitato viva sorpresa e reazioni addirittura risentite da parte di economisti e giuristi la notizia che, poco prima della pausa estiva, un gruppo di senatori capitanati da Luigi Zanda abbia presentato un ampio e assai ambizioso disegno di legge delega "in materia di controllo delle società quotate e di contrasto al fenomeno delle cosiddette 'scatole cinesi'".
Le linee di intervento del dl Zanda riguardano aspetti cruciali della corporate governance. In primo luogo, esso propone di modificare la disciplina delle offerte pubbliche di acquisto, prevedendo l'abbassamento, ad opera di Consob, della soglia del 30% di possesso del capitale di una società quotata "limitatamente alle società ad elevata capitalizzazione e ad azionariato particolarmente diffuso", sopra la quale scatta l'obbligo di opa totalitaria, sia pure con la precisazione che la nuova soglia rilevante di possesso azionario non possa risultare "comunque inferiore al 15 per cento".
Un'altra riforma proposta è quella di limitare la possibilità di indebitamento delle imprese, sia a seguito di un'acquisizione a debito sia, per così dire, vita natural durante.
Ma soprattutto, il progetto mira a sterilizzare il diritto di voto esercitabile dalle società holding nelle assemblee delle controllate al fine di contrastare il fenomeno, ritenuto disdicevole, delle cosiddette scatole cinesi.
Lascia assai perplessi, anzitutto, la scelta stessa di proporre l'intervento nella regolamentazione degli "emittenti". Buone o cattive che siano, le leggi hanno necessità di decantazione, di applicazioni graduali e, semmai, di una buona manutenzione, non già di una continua revisione, specie se a distanza di pochi mesi.
Sconcerta soprattutto l'impostazione di fondo: la convinzione che il legislatore possa paternalisticamente considerare alcuni assetti proprietari di un'impresa migliori di altri, vietando o condizionando l'adozione di quelli ritenuti non desiderabili. Sotto sotto, è radicata la sfiducia nella capacità del mercato di valutare le strategie di investimento anche alla luce degli assetti proprietari dell'impresa e l'illusione che la saggezza legislativa possa ovviare alle lacune o deficienze dei meccanismi concorrenziali di allocazione e, soprattutto, di riallocazione dei diritti proprietari. La stessa visione traspare dall'intenzione di prescrivere una soglia di sostenibilità ideale della "leva" finanziaria.
Anche la proposta di modificare la soglia fissa ai fini della disciplina dell'opa obbligatoria suscita, sia pure per altre ragioni, motivi di preoccupazione, dato che sarebbe destinata a generare gravi incertezze interpretative. Per tacere dell'improprietà di affidare a Consob il potere di determinare la soglia di possesso azionario ai fini dell'opa.
Più in generale, la proposta è tecnicamente assai maldestra e molte delle disposizioni sono di dubbia legittimità, come ad esempio la sterilizzazione dei diritti di voto in capo alla holding oppure quella, davvero sorprendente per il "tasso" di illiberalismo, che decreta il delisting di un'impresa "soggetta ad attività di direzione e coordinamento" qualora abbia violato le disposizioni in materia di responsabilità, pubblicità, motivazioni delle decisionie finanziamenti.
Insomma, non resta che sperare nelle tagliole parlamentari affinché venga consegnato all'archivio del senato un testo che trasuda una grave mancanza di cultura e saggezza, economica ancor prima che giuridica, e che non fa onore ai suoi proponenti.