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La rivoluzione culturale parte dalla G2

, di Luca Massimiliano Visconti - direttore del Mimec, il Master in marketing e comunicazione della Bocconi
Immigrazione. Cosi' il marketing sta anticipando la societa' e soprattutto la normativa

Un nato su dieci, in Italia, proviene da famiglie con almeno un genitore straniero. E sarebbero già un milione i giovani stranieri di seconda generazione. Evidenze numeriche che sottendono vite, progetti di integrazione scolastica, lavorativa, sociale ed economica, così come trasformazioni nei modelli di consumo e nelle opportunità di business. Fatti, anche, che ci trovano impreparati, a partire da come definiamo questi ragazzi che, spesso nati in Italia, sono senza cittadinanza.

Ragazzi che la stampa, gli esperti di marketing (pochi, in verità), la società civile continuano a chiamare stranieri, che spesso vorrebbero stranieri, benché di seconda generazione. Le cosiddette G2, quasi che in questo 2 fosse incorporata una sorta di promozione sociale rispetto ai loro genitori. Promozione, si intende, giacché di parità nemmeno si accenna.

Per evitare di imporre su queste persone categorie a priori, con Enzo Napolitano (www.etnica.biz) abbiamo di recente condotto una ricerca su circa 400 ragazzi, tutti nati da genitori stranieri e residenti tra Milano, Biella e Torino. Ebbene, sareste forse sorpresi nel leggere quante diverse rappresentazioni del sé emergono dalle dirette parole degli interessati: cittadini del mondo (circa un quarto dei rispondenti), stranieri in Italia (altrettanti), italiani e nuovi italiani, italiani col trattino, ma solo in minima parte immigrati (5%).

Al di là dei numeri, pur così importanti, chi scrive ha raccolto anche qualche storia di vita. Cosa dire di un adolescente egiziano che dai compagni si sente chiedere «ma se scoppiasse una guerra tra Italia ed Egitto, tu con chi ti schiereresti?». I nostri schemi mentali, e probabilmente anche le categorie sociali e le rigide logiche di segmentazione dei mercati, ci impediscono di pensare che ci siano alternative a simili scelte dicotomiche. Nei fatti, le persone possono sviluppare legami profondi con entrambe le culture, e di conseguenza costruirvi relazioni affettive solide, consumare prodotti differenti e combinarli creativamente. Ed è proprio questo lo scenario che la nostra ricerca mette in luce.

Le seconde generazioni ascoltano musica inglese, leggono e guardano la televisione italiana, ma spesso anche quella dei paesi di origine dei genitori, studiano, si divertono come e con i ragazzi italiani (doc, si intende).

Della nostra pubblicità rifiutano soprattutto l'uso della violenza (circa il 75%), ma anche il nudo e l'ambiguità sessuale (circa il 30%). E, quando comprano, valutano il rapporto qualità/prezzo (78%), la funzionalità del prodotto (circa 50%) e la marca (circa 55%), più di quanto non facciano in genere i loro genitori. Sono vivaci consumatori di tecnologia, anche per mantenere i contatti con i paesi di origine. Amano la moda tanto quanto i prodotti di massa.

I dati indicherebbero che il mercato sta anticipando la società, e soprattutto la nostra normativa, nel normalizzare il processo di integrazione. Sarebbe quindi interessante intensificare ricerca e riflessione su come dal mercato (uso della pubblicità, ideazione dei prodotti e loro targettizzazione) sia possibile favorire un confronto, non necessariamente conflittuale, tra nuovi e vecchi italiani.

Imprese, accademici e consulenti sono all'età della pietra, sotto questo versante. Al contrario, sono proprio le G2 che offrono segnali concreti di iniziativa: l'avvio di un forum tematico online (www.secondegenerazioni.it), l'esperienza di Yalla Italia, inserto di giovani islamici del settimanale Vita, e anche giovani rapper di successo, come Amir, che cantano la frustrazione di essere trattati da stranieri nel paese che sentono e vorrebbero vivere come loro.

Dimenticavo di dirvi la risposta che il mio giovane intervistato egiziano offre ai suoi compagni: «Non so, non saprei rispondere, perché entrambe le culture sono così mischiate dentro di me. Alla fine, credo, non sceglierei in base alla nazionalità, ma al motivo del conflitto».

Niente da aggiungere.