Il federalismo che non coinvolge gli enti locali
Il decreto legislativo 85/2010, sull'attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, desta perplessità. Questo intervento è stato denominato dai commentatori come «federalismo demaniale», implicando che esso sia il primo passo verso il «federalismo fiscale», ma tale sequenza non è dimostrata, anzi è vero il contrario, in quanto il Titolo V della Costituzione non impone un modello in cui la potestà impositiva scende verso il basso, né vincola a un trasferimento dei beni demaniali dallo Stato agli enti locali. Non è dunque vero che per attuare il federalismo fiscale i beni demaniali debbano essere attribuiti verso il basso.
Il problema invero è di fondo: la riforma del Titolo V ha costituzionalizzato le istanze di finanza derivata ma non ha introdotto reali istituzioni federaliste, quali un ramo del Parlamento rappresentativo delle regioni. Ne consegue che, paradossalmente, l'introduzione del federalismo fiscale discende da decisioni di vertice e si sviluppa con l'emanazione di una legge delega e di decreti attuativi, senza coinvolgere realmente gli enti locali. Vi è poi la questione dell'inedito trasferimento verso il basso dei beni "per opzione". La più sorprendente novità del d.lgs. 85/2010 è una sorta di federalismo 'à la carte' nel quale gli enti locali scelgono l'attribuzione di beni da elenchi formati a livello centrale. Questo trasferimento per opzione travalica qualsiasi forma di negoziazione politica: il governo propone e gli enti locali individuano, ognuno autonomamente, unilateralmente e con effetti vincolanti, i beni di cui vogliono dotarsi. Il cuore di questo nuovo federalismo demaniale dovrebbe essere invece la negoziazione politica circa le titolarità dei beni e le loro destinazioni nell'ambito dei diversi livelli di governo.Altra questione importante è relativa alla violazione, da parte del d.lgs., del criterio della "non onerosità" dell'attribuzione dei beni imposto dalla legge delega. È vero che il bene è trasferito senza oneri agli enti locali, ma l'art. 9, c. 2 del decreto prevede che, a seguito del trasferimento, saranno ridotte le risorse statali spettanti all'ente "in misura pari alla riduzione delle entrate erariali" conseguente dal trasferimento.Ne risulta che un trasferimento che dovrebbe essere a titolo gratuito, in realtà è a titolo oneroso. Il d.lgs. viola quindi la legge delega e sussiste un fondato profilo di illegittimità costituzionale del decreto in base all'art. 76 Cost. (violazione o eccesso di legge delega). Di estremo rilievo è poi la questione della potenziale 'privatizzazione' di comparti del demanio pubblico. In base al decreto è previsto che importanti tipologie di beni demaniali indisponibili possano transitare a un regime di piena disponibilità a livello locale. Una sostanziale, anche se per ora solo potenziale, 'privatizzazione' del demanio che non è una forma di attuazione dell'art. 119, c. 6 della Costituzione. Lo spirito dell'art. 119 della Costituzione è garantire che gli enti acquisiscano e preservino un patrimonio proprio, e non attribuire agli enti locali un potere di alienare i beni che lo compongono. In concreto vi è il rischio che il sistema introdotto dal d.lgs. 85/2010 costituisca lo strumento per rendere disponibili taluni comparti dei beni pubblici nazionali. Va detto che il decreto ha posto attenuazioni alla potenziale alienabilità dei beni demaniali, che però non sono adeguate in quanto non traspare alcuna forma di controllo politico circa le dismissioni a favore di privati. Trattasi di limitazioni che subordinano la trasferibilità a meri controlli di tipo amministrativo ovvero stabiliscono limiti alla disponibilità soltanto per gli enti in stato di dissesto. Infine, il d.lgs. prevede che i beni trasferiti agli enti possono essere conferiti a fondi comuni di investimento immobiliare. Ma un fondo rappresenta gli interessi dei fondisti, è diretto alla gestione economica dei beni e non certo all'utilizzo del bene a favore della comunità. Conferendo beni al fondo, gli enti non solo depaupererebbero il loro patrimonio, ma reperirebbero risorse al di fuori del sistema pubblico con un'introduzione di interessi privati nella gestione del patrimonio locale.