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Investimenti, ritorno al passato

, di Paolo Cucurachi - docente di portfolio performance evaluation in Bocconi, SDA professor di intermediazione finanziaria e assicurazioni. Ordinario di economia degli intermediari finanziari all'Universita' del Salento
Ai fondi comuni i risparmiatori preferiscono i tradizionali depositi e le obbligazioni. La ragione? Costi troppo alti. Per questo serve rivedere il modello di pricing e le zone d'ombra

I dati Assogestioni sulla raccolta del comparto fondi comuni nel primo mese 2012 confermano il trend negativo dell'industria. Le ragioni stanno, da un lato, nei problemi di liquidità delle banche, che le inducono a favorire uno spostamento della clientela dai prodotti di risparmio gestito verso depositi e obbligazioni; dall'altro, nel fatto che i risparmiatori imputano ai fondi comuni di investimento un eccessivo costo anche alla luce delle loro performance relative. Queste motivazioni sembrano essere state negli ultimi anni più forti rispetto alle buone ragioni, ricordate da Assogestioni, per destinare i propri risparmi a un fondo comune di investimento: autonomia, controllo, diversificazione, trasparenza e solidità. La lista delle cose da fare per invertire la tendenza è lunga e riguarda le relazioni tra produttori e distributori, la filosofia di offerta, le tecniche di gestione (attiva o passiva) e la struttura delle commissioni.

Riguardo alla struttura delle commissioni facciamo l'esempio reale di un fondo comune, che consente di fornire una parziale spiegazione alle ragioni della disaffezione dei risparmiatori nei confronti di questa forma di investimento. Il fondo in oggetto è un fondo specializzato sul mercato azionario americano che dichiara una filosofia di gestione attiva, ossia finalizzata ad aggiungere valore rispetto al benchmark di riferimento con un attento controllo del rischio. Il fondo prevede oltre a una commissione di ingresso pari all'1,5% (retrocessa ai distributori per il 100% e dagli stessi scontabile), una commissione di gestione pari al 2% (retrocessa ai distributori per il 62%) e una commissione di incentivo pari al 25% dell'overperformance calcolata rispetto a un benchmark non inclusivo dei dividendi. Una prima lettura di queste informazioni consente di evidenziare che le risorse a disposizione del gestore per produrre le ricerche e le analisi necessarie per battere il benchmark non sono pari al 2% delle masse gestite ma allo 0,76% (circa il doppio rispetto a un Etf che si propone di replicare il medesimo benchmark) e che l'eventuale sovra performance genera un'ulteriore remunerazione a titolo di commissione di incentivo. Dal prospetto informativo si scopre poi che il fondo nell'ultimo decennio ha battuto il benchmark solo in due anni e, ciò nonostante, in uno degli otto anni di performance relativa negativa ha incassato il premio a titolo di commissione di incentivo. Come è possibile che ciò sia accaduto? La risposta sta nell'utilizzo ai fini del calcolo della commissione di incentivo di un benchmark che non considera i dividendi incassati. E che potrebbe paradossalmente consentire a un gestore di dichiarare una politica di gestione attiva; applicare commissioni più alte rispetto alla corrispondente gestione passiva purché più basse dei dividendi pagati dal mercato; incassare le commissioni di gestione, garantendo una remunerazione alla rete distributiva, e incassare anche la commissione di incentivo grazie all'utilizzo di un benchmark privo di dividendi (che la normativa vieta di usare come parametro di riferimento del fondo).

Questo esempio, lungi dal volere accomunare tutta l'industria del risparmio gestito a simili discutibili, benché leciti, comportamenti, evidenzia come nonostante l'elevato livello di trasparenza che caratterizza il comparto permangano zone d'ombra che riguardano il rapporto tra distributori e produttori. In altri termini, se l'analisi storica di questo fondo mostra la sua incapacità di battere il benchmark perché le commissioni non ne tengono conto? Quale distributore venderebbe a un cliente, facendogli pagare il relativo prezzo, un prodotto sapendo che lo stesso non possiede le caratteristiche prospettate? La risposta sta in una struttura commissionale imperniata sulla relazione privilegiata tra distributore e produttore, nella quale il primo percepisce commissioni senza doverle esplicitamente chiedere al cliente e il secondo non deve preoccuparsi della qualità dei prodotti avendo una rete captive che li colloca. Bisogna pensare a un modello di pricing nel quale produzione e distribuzione, anche se appartenenti al medesimo gruppo, competano liberamente e chiedano in modo esplicito commissioni in funzione della qualità del servizio offerto. Temo che fondi come quello dell'esempio avrebbero vita difficile.