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Impara l'arte e mettila in città. Così nasce una stella

, di Marilena Pirrelli
Il ruolo delle istituzioni museali e del settore pubblico per promuovere la rigenerazione urbana secondo Stefano Baia Curioni, direttore del Centro Ask Bocconi e Stefano Boeri, architetto

Dal Louvre al MoMa, dal Guggenheim alla Tate e al Pompidou, molti grandi musei hanno avviato politiche di espansione nel resto del mondo, dagli Emirati Arabi alla Cina, dagli Stati Uniti all'Europa. Ma l'ingresso di queste istituzioni culturali porta sviluppo nelle realtà urbane? Promuovono e sostengono i centri creativi e le realtà loro circostanti? E le avanguardie artistiche possono ricevere benefici dalle politiche culturali pubbliche? Su questi temi hanno dibattuto Stefano Baia Curioni, direttore della laurea specialistica di Economics and management in arts, culture, media and entertainment della Bocconi, del Centro Ask Bocconi e della Fondazione Erga, nonché membro della Commissione per la valorizzazione del patrimonio culturale italiano, nominata dal ministero per i beni culturali, e Stefano Boeri, architetto e docente di Progettazione urbana presso la Facoltà di Architettura di Venezia, cofondatore dell'agenzia di ricerca Multiplicity, con la quale ha ideato installazioni per istituzioni di architettura e arte contemporanea come Documenta a Kassel, la Biennale di Venezia, la Kunstwerke di Berlino, il Musée d'Art Moderne di Parigi, la Generali Foundation di Vienna, la galleria Tn Probe di Tokyo.

L'arte può diventare un motore dello sviluppo urbano nel lungo periodo?

STEFANO BAIA CURIONI Ogni ragionamento teorico su questo tema non può prescindere dai casi empirici, sempre più numerosi, in cui si sperimenta l'efficacia di politiche artistiche per lo sviluppo urbano. Nelle pratiche tradizionali, di derivazione otto e novecentesca, si sono privilegiati gli interventi nei centri cittadini e nelle grandi capitali, negli ultimi trent'anni si sono progettate grandi operazioni di installazione museale in quartieri industriali o periferici o in città periferiche. Il Guggenheim a Bilbao, la Tate Modern a Londra, il Ps1 nel Queens a New York, sono tra gli esempi più conosciuti di quest'onda. Le valutazioni hanno dato risultati convergenti: sono progetti che hanno effetti molto decisi sulla comunicazione, sulla spettacolarità e sulla ristrutturazione del luogo con sensibili conseguenze a breve-medio termine su valori immobiliari e indotto turistico.

Si sono però anche riconosciute delle ombre: che tipo di riqualificazione urbana è stata generata? Certamente si produce "centrificazione", ma quanto le nuove realtà culturali hanno realmente creato nuovi tessuti produttivi, capaci di generare valore e senso per l'economia circostante? I risultati sono stati diversi: talvolta, addirittura, hanno espulso il tessuto abitativo e produttivo preesistente, come nel caso della Tate, per insediare gruppi sociali nuovi. Altre volte il processo ha determinato l'espulsione di realtà interculturali circostanti. Non sono stati processi completamente previsti dalla teoria, la prassi e la sua complessità hanno, in un certo senso, suscitato la provocazione a cui la teoria oggi deve rispondere.

STEFANO BOERI A grandi linee possiamo riconoscere tre modelli di promozione dell'arte come motore dei processi di rigenerazione urbana. Il primo modello è quello di città come Bilbao e Abu Dhabi, città che importano le istituzioni museali di grandi soggetti privati. Si tratta di un modo per potenziare il brand della città grazie ad un pivot simbolico catapultato dall'alto che diventa un volano socio-economico. Il secondo modello è quello di un movimento spontaneo di residenzialità degli artisti, come avvenne a Soho, New York, negli anni 60, o è avvenuto a Berlino dal 2000 in poi, o più recentemente a Pechino. In tutti questi casi, una popolazione di artisti e creativi si è radunata in modo non sincrono, cambiando senso a interi quartieri. Il terzo modello è la promozione pubblica dell'arte come ingrediente di una nuova immagine della città realizzata attraverso grandi eventi internazionali: Barcellona e Torino, per fare due esempi, hanno lavorato molto in questa direzione. La città catalana negli ultimi 20 anni, quella piemontese più recentemente, hanno pianificato l'arte come ingrediente nuovo della vita pubblica e come fattore di attrazione per lanciare e governare grandi manifestazioni come le Olimpiadi o le Expo.

Tutti e tre i modelli sono però pieni di insidie: ad esempio, importare il "modello Bilbao" nei Paesi Arabi potrebbe generare un rigetto, perché non è detto che la nuova realtà culturale delle città del Golfo possa interagire con il tessuto locale creando un indotto sostenibile. D'altro canto, è vero che il modello Soho di ricerca dell'autenticità urbana (nel nostro piccolo milanese, il quartiere di Brera) porta i creativi a dare dinamismo alla città; ma Soho è diventata presto un'area appetibile per il mondo della moda che vi si è insediato successivamente facendo lievitare i prezzi e allontanando le popolazioni di giovani artisti; cioè distruggendo proprio quel valore di autenticità che aveva attratto i giovani artisti. Lo stesso sta accadendo a Berlino... insomma anche nel terzo modello le cose non sono così semplici: costruire un'immagine pubblica è un'alchimia complicata.

L'arte può portare senso allo sviluppo urbano?

BAIA CURIONI L'arte, un buon rapporto con l'arte, è segno e condizione dello sviluppo sociale. Ciò detto si assiste a un singolare paradosso: da una parte si riversano sull'arte grandi risorse finanziarie e altrettanto grandi speranze che essa possa operare una palingenesi della qualità della vita urbana, ma d'altra parte il mondo dell'arte resta sostanzialmente un campo molto elitario e chiuso e, per molti aspetti, cinicamente attento alle dimensioni economiche. Vi è un contrasto stridente tra le speranze riposte nell'arte e nelle istituzioni artistiche e la sottile e condivisa incapacità di dare autenticamente senso all'arte, soprattutto contemporanea.

Si elencano quindi i vantaggi delle politiche artistiche, gli indotti economici e la job creation, ma le questioni a cui risponde l'arte, per esempio la sua possibilità di "dare voce" a questioni e volti altrimenti non percepibili, restano sottotraccia. Il risultato è che vi è più consapevolezza dell'importanza di fondare nuovi musei che dell'importanza che si creino nuovi immaginari... anche se le due cose talvolta sono correlate.

Chi dovrebbe promuovere l'arte nelle città?

BOERI Bisognerebbe promuovere un soggetto pubblico in grado di gestire i processi economici e mediatici dell'arte contemporanea. Se si lascia tutto al mercato si rischia di veder svanire il senso dell'arte, che viene trasformato in uno squallido incrocio tra utilità immobiliare, rendita finanziaria e evento mediatico. Credo si dovrebbe seriamente prendere in considerazione l'idea di promuovere nelle grandi città italiane delle agenzie per l'arte contemporanea. Proposi il progetto a Napoli tempo fa, ma nessuno mi diede retta. In Germania, ad esempio, esiste un'agenzia del ministero della cultura che si occupa specificamente di arte contemporanea attraverso il finanziamento di progetti e la promozione di sinergie. Il ruolo pubblico di tali agenzie dovrebbe consistere nella valorizzazione delle risorse locali, nell'orientamento verso la complementarità delle istituzioni e nell'attrazione dei flussi economici. A Milano manca un'istituzione pubblica con questa missione.

BAIA CURIONI In Italia ci sono le Fondazioni bancarie, che hanno fatto molto e molto continuano a fare. Il Maxxi è oggetto di un importante intervento pubblico non solo sul piano delle risorse ma anche su quello istituzionale e rappresenta un esempio di politica culturale con impatti sul territorio. In Italia l'arte richiede forme di ibridazione tra pubblico e privato. Naturalmente la questione non è negare fenomeni spontanei e privatistici, o pubblici e istituzionali, ma introdurre una misura frutto di una negoziazione che consenta di trovare un equilibrio tra strategie e sostenibilità progettuale.

La soluzione quindi per lo sviluppo dell'arte in armonia con il contesto urbano è l'agenzia?

BOERI Sì, un'agenzia in grado di indirizzare uno sviluppo politico e immobiliare (pensiamo a quartieri di relativo degrado affidati ad una politica di affitti a prezzi calmierati..) per attrarre giovani artisti, creare eventi di coagulo. Ma l'arte contemporanea oggi in Italia ha un'altra grave lacuna: manca da parte delle istituzioni il riconoscimento dell'importanza della figura di un curatore, o meglio di un managing curator dotato di mezzi finanziari e di assoluta libertà di scelta, capace così di produrre politiche culturali sul medio e lungo periodo. Un curatore effettivo (non un consulente in balia delle idiosincrasie dei membri dei consigli di amministrazione...) a cui viene affidata per tre - cinque anni la gestione culturale e finanziaria delle mostre.

BAIA CURIONI In Italia un obiettivo ancora da raggiungere è la dimensione meramente igienica dell'autonomia culturale: pianificazione, programmazione pluriennale e certezza delle risorse per le istituzioni culturali. Una seconda frontiera sempre diciamo di natura igienica è la riduzione del peso relativo dei salotti e il potenziamento di un tessuto professionale specifico nel settore. Questo vale sia per il privato che per il pubblico. La presenza privata nell'arte contemporanea non è sostituibile. Basti pensare all'azione di istituzioni come la Fondazione Prada, il premio Furla, la Fondazione Ratti, la Sandretto Rebaudengo, la Spinola-Banna, per non dirne che alcune. A volte si ha l'impressione che esse debbano sostituirsi al pubblico... il pubblico deve crescere nella sua capacità professionale d'interazione con l'arte contemporanea. La speranza è che anche le università possano avere un ruolo di supporto in questo processo.

Oggi cambia non solo l'origine della produzione artistica, ma anche la fruizione?

BOERI Le nostre città sono cosmopolite e molteplici anche nella composizione sociale e culturale della domanda di arte. Sarebbe opportuno uno sguardo pubblico sull'utilità sociale dei fenomeni creativi prodotti nelle città. Un'agenzia potrebbe lavorare proprio sul tema della dimensione cosmopolita delle nostre città-mondo.

BAIA CURIONI Un approccio localizzato dovrebbe essere attento alle comunità etniche e ai fenomeni di immigrazione. Forme di integrazione pubblico-privato dovrebbero essere la strada da sperimentare, rappresenterebbero un sentiero di imprenditorialità istituzionale coerente con la vita contemporanea. Lavorare in questa direzione significa stare a contatto con i centri dove si producono gli immaginari, elementi generativi in grado di produrre valore: la moda contemporanea si nutre di immaginari generati 35 anni fa dagli skaters losangelini, per molti aspetti dei loser, capaci però di raccontarsi e di avere uno stile... La città comincia in questo modo a narrarsi non solo attraverso i totem, come i musei di arte contemporanea, ma anche direttamente attraverso le sue voci: tra cui fondamentali quelle delle arti. E così facendo si rigenera.

La cultura può diventare un sistema integrato?

BOERI In Italia ancora no. Più volte a Milano ho invitato il sistema locale a coordinarsi. Per fare un esempio, perché la Triennale con il Piccolo Teatro, il Dal Verme con lo spazio Mazzotta, il Castello Sforzesco con l'Arena - tutte istituzioni che si affacciano sul più grande parco pubblico di Milano - non si coordinano e cercano di costituirsi insieme come sistema di offerta culturale, magari offrendo in alcune date un biglietto unico ai visitatori? Si potrebbe realizzare uno dei Parchi delle culture più formidabili del mondo... Un progetto diffusissimo in altre città europee, ma che qui ancora non riesce a passare.

BAIA CURIONI La cultura vive di integrazione, ma le ricette di questa integrazione possono essere molto diverse. Le grandi metropoli vivono di una molteplicità di sistemi sovrapposti, tra cui dominano per visibilità quelli costituiti dai grandi totem museali. Nelle città di medie dimensioni si possono trovare soluzioni differenti: Torino, per esempio, pur tra mille difficoltà, non ha costruito totem, ha fatto un'operazione sabauda, misurata, che ha consentito un processo insperabile, vi sono altri esempi simili nelle medie città europee, da Grenoble a Marsiglia a Manchester, tutte città vitali ma prive di totem.

Ci sono anche modelli diversi?

BOERI Alcune città sono riuscite a lavorare sulla promozione di istituzioni dotate di un profilo originale. In Sardegna una piccola istituzione come il Man (Museo d'arte della Provincia di Nuoro), un esempio di eccellenza europea, diretta da Cristina Collu, fa mostre in sinergia con il Reina Sofia, la Tate, con un programma coraggioso e avanzato di eventi e inviti. Nello stesso tempo si è affermata l'idea di realizzare un museo-totem di arte contemporanea e nuragica a Cagliari. L'idea di Renato Soru, affidata a Zaha Hdid, è di costruire un grande edificio-volano che metta insieme l'arte contemporanea e l'arte antica. Ma la cosa più straordinaria è che il Museo mediterraneo dell'arte nuragica e dell'arte contemporanea sarà costruito sul fronte mare di Sant'Elia a Cagliari, uno dei quartieri di edilizia popolare più degradato. L'idea è di portare in periferia il segno di un interesse della collettività per le aree di maggior disagio, sotto forma di un'architettura di alto profilo. Il museo avrà un suo corpo centrale e un'articolazione sul territorio e nei siti nuragici e del contemporaneo. È un progetto chiaro che nasce da un indirizzo politico altrettanto chiaro.

Milano potrà avere il suo totem del contemporaneo?

BAIA CURIONI La situazione si sta evolvendo. Il progetto di un museo del contemporaneo di 18 mila metri quadrati a Fieramilanocity si presenta come uno dei più grandi d'Europa e dovrebbe essere pronto dal 2011. C'è anche il progetto di un nuovo museo a Sesto San Giovanni. La città ha generato e promesso più progetti di quanti ne ha realizzati, spesso deludendo le aspettative.

Il vero punto però è che Milano non sta producendo nuovi immaginari, mancano forse voci eterogenee. La politica dell'arte è un modo di fare politica della sfera pubblica: significa dare voce... tutti sono d'accordo che un museo di arte contemporanea sia necessario. Ma la differenza la farà il fatto che esso sia autonomo culturalmente, con curatori di livello dotati dei giusti mezzi, e inserito in una politica orientata a valorizzare le differenze nella metropoli. In sé un museo di grandi dimensioni può, altrimenti, anche diventare uno strumento di omogeneizzazione e di censura...

BOERI I problemi a Milano non sono i contenitori per l'arte (ce ne sono decine, bellissimi e senza programmazione), mancano piuttosto i contenuti di una politica sull'arte contemporanea e sulla creatività. Manca una regia: un'agenzia potrebbe occuparsi di trovare un equilibrio tra gli aspetti della curatela e quelli della programmazione, negli ultimi anni abbiamo visto mostre di cui vergognarci, fatte nella totale improvvisazione, solo brandelli di grandi eventi circolati altrove o improponibili. Il fatto è che nella programmazione di eventi artistici si segue spesso una logica aggregativa di materiali sparsi, piuttosto che una seria politica di curatela, affidata a tecnici indipendenti e dotati di una libertà di scelta e di spesa.