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Banche, ecco perché non funziona la trasparenza a corrente alternata

, di Stefano Zorzoli - professore associato di economia degli intermediari finanziari alla Bocconi
Da risolvere l'equivoco del fair value: rinunciandovi si nasconde la polvere sotto il tappeto, ma non si risolve il nodo della tossicità dei titoli

Quando, all'inizio degli anni 2000, i principi Ias-Ifrs sono diventati i protagonisti della scena contabile europea, nessuno avrebbe immaginato gli eventi successivi. La disciplina Ias-Ifrs alimentava un vento di novità, soprattutto perché veniva imposto un utilizzo più diffuso del criterio di valutazione al fair value (fair value accounting), in luogo del più tradizionale criterio del costo storico. Per le banche e per le istituzioni finanziarie, questo significava che le componenti del portafoglio di strumenti finanziari oggetto di trading venivano valutate ai prezzi di mercato (mark-to-market) o a valori emergenti da procedimenti di stima (mark-to-model) espressivi delle condizioni di mercato. Le oscillazioni dei valori di stima alimentavano il conto economico e incidevano direttamente sui risultati.

Pensando male, le banche sarebbero state in grado di produrre redditività grazie al semplice andamento verso l'alto dei prezzi di mercato degli strumenti finanziari, anche senza svolgere un'effettiva attività di trading. In certe condizioni di mercato, ecco uno window dressing del tutto legale.A partire dal 2007, la crisi finanziaria ha cambiato il panorama dei mercati e gli effetti contabili sui bilanci delle banche: in due parole, prezzi in discesa e difficoltà ad applicare i metodi mark-to-model. La soluzione ottenuta dalla potente lobby bancaria è stata quella di una modifica in corsa alle norme contabili in tema di valutazione degli strumenti finanziari, con il permesso di tornare a contabilizzare gli strumenti finanziari al costo storico, rinunciando (temporaneamente?) alla modernità del fair value accounting. Secondo le giustificazioni istituzionali, la normativa modificata protegge le banche dagli effetti di una crisi di fiducia da parte degli investitori. Ciò sulla base di un'assunzione un po' semplicistica: non dovendo imputare a bilancio le perdite contabili sugli strumenti finanziari posseduti, le banche sono percepite dal mercato in uno stato di forma migliore rispetto a quello reale. Sottrattesi al rischio della crisi di fiducia, le stesse banche hanno più tempo per una vera remise en forme.Ma il mercato è così disattento? O le banche non stanno semplicemente spingendo la polvere sotto il tappeto? Dovrebbe essere chiaro che se gli asset sono "tossici", lo sono qualunque sia lo strumento di valutazione contabile adottato. Il problema non risiede nella rappresentazione contabile, ma nelle caratteristiche degli asset tossici in termini di rischio-rendimento. In questo variegato ambiente contabile-finanziario, vagamente "a là Quentin Tarantino", è inoltre interessante osservare l'uso disinvolto del termine "trasparenza" quando si parla di bilanci bancari. La trasparenza delle informazioni contabili è cosa buona e giusta solo quando le dinamiche gestionali e i mercati finanziari sono in equilibrio. Quando la crisi è in atto, la trasparenza diventa addirittura un enzima che può aggravarne gli effetti. Ma è davvero così? E soprattutto, gli investitori non meritano invece sempre di poter beneficiare di un'adeguata trasparenza?Se la risposta alla seconda domanda è "sì", il fair value accounting dovrebbe essere mantenuto e diffusamente adottato, seppure a crisi ancora in corso, facendo sì che le banche, attraverso il bilancio, trasmettano al mercato segnali chiari e immediati sui propri assetti economici e patrimoniali. In questo senso, potrebbero essere rese rapidamente efficaci due modifiche alle attuali regole contabili previste per i bilanci bancari, in grado di alzarne la trasparenza e la chiarezza. In primo luogo, occorre una distinzione più evidente tra guadagni e perdite effettivi o solo "contabili". Prendiamo il caso degli strumenti finanziari oggetto di attività di trading: attualmente, in un bilancio bancario, il conto economico riporta in una voce unica il saldo di tutti i risultati ottenuti nei diversi comparti del trading book (azioni, titoli a reddito fisso, derivati non di copertura), senza alcuna distinzione tra risultati effettivi e risultati "da valutazione al fair value". Il breakdown del risultato complessivo è disponibile solo in nota integrativa. Perché invece non evidenziare la distinzione già in sede di conto economico? Il costo amministrativo per le banche sarebbe nullo e il vantaggio informativo per il mercato sarebbe significativo. Tale evidenza "di conto economico" potrebbe poi essere estesa alle operazioni aventi per oggetto altri asset, quali le partecipazioni e i crediti. In secondo luogo, occorre imporre alle banche una descrizione molto dettagliata dei criteri di valutazione adottati per gli strumenti finanziari.Al riguardo, le norme esistenti già richiedono una certa disclosure in nota integrativa in materia di politiche contabili e di criteri di valutazione. Ma tale imposizione è poco incisiva e le banche adempiono agli obblighi informativi con formule descrittive standardizzate e poco efficaci. È infatti inutile comunicare che "... i titoli a reddito fisso non quotati sono stati valutati attualizzando i flussi di cassa a un opportuno tasso di sconto, espressivo delle condizioni di rischio correnti". Ci mancherebbe anche, viene da dire. Alla banca dovrebbe invece essere imposto di indicare quale tasso di sconto sia stato effettivamente usato titolo per titolo! In questo modo, il bilancio sarebbe davvero "informativo" e soddisferebbe inoltre adeguatamente il requisito della comparabilità, perché consentirebbe il confronto su basi solide dei risultati di banche diverse.