Tabellini, come la politica penalizza la crescita
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Guido Tabellini |
Sulle politiche per la crescita, sull'università, sul welfare, sul sistema bancario, sulle imposte sul lavoro e sulle riforme costituzionali Guido Tabellini ha le idee chiare e, con il suo L'Italia in gabbia. Il volto politico della crisi economica (Università Bocconi editore, 252 pagine, 14 euro) riesce a chiarirle anche al lettore, convincendolo del fatto che la natura dei mali italiani sia, prima di tutto, politica.
In una raccolta di scritti pubblicati in oltre dieci anni, Tabellini conduce un'analisi tagliente e impietosa e suggerisce, in termini accessibili a tutti, soluzioni condivisibili, ma spesso radicali e perciò ostacolate da un potere politico che non vuole assumersene la responsabilità.
Viviamo il passaggio da un'epoca in cui motore della crescita era l'accumulazione di capitale fisico, necessario per imitare la crescita industriale di altri paesi, a una in cui il motore diventa l'accumulazione di conoscenza, perché nel mercato internazionale si compete attraverso l'innovazione e vince chi riesce a selezionare e a far crescere le idee migliori. In questa nuova realtà nessun governo "possiede le conoscenze necessarie a stabilire quali sono i progetti più promettenti. La migliore politica industriale è la tutela della concorrenza. Il vero compito della politica economica è mantenere un ambiente concorrenziale e aperto alle nuove iniziative, dove le imprese siano contendibili, abbiano il fiato sul collo della concorrenza, e chi le dirige sia sempre alla ricerca di ulteriori miglioramenti".
Tabellini dimostra di essere lontano dal massimalismo che, partendo dal concetto di competitività, ha portato a esagerare le analogie tra nazioni e imprese, e da questa posizione più equilibrata trae motivi di speranza per l'Italia. "Nelle discussioni sulla competitività italiana", scrive, "vi è un errore ricorrente: confondere l'Italia con una grande azienda. Un'impresa deve essere più competitiva dei concorrenti: se non ci riesce, rischia di uscire dal mercato. Per un paese, l'idea di competitività è fonte di confusione. Un paese meno produttivo degli altri in senso assoluto continua ad avere scambi commerciali: esporta ciò su cui ha un vantaggio comparato, importa ciò che è più efficiente produrre altrove". Se, dunque, la battaglia con la Cina per le produzioni ad alto contenuto di lavoro è perduta, l'Italia deve riallocare le risorse per trovare un vantaggio competitivo in altri settori: un'altra scelta politicamente difficile, dal momento che si tratterebbe di privilegiare i servizi in un paese in cui gli occupati dell'industria sono più numerosi che nel resto del mondo occidentale (28% contro il 18% degli Stati Uniti). Per arginare la Cina, in definitiva, si deve investire sulla conoscenza.
Le potenzialità positive del mercato (da non confondere, specifica Tabellini, con il capitale) sono ribadite negli scritti che riguardano un sistema bancario che non può essere protetto dall'interessamento degli operatori stranieri. Mercato, infine, non significa mancanza di regolamentazione, come si evince chiaramente dall'analisi della crisi finanziaria che stiamo attraversando e che un maggiore controllo, da parte soprattutto delle autorità americane, avrebbe forse potuto evitare.