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Enron, un western nero per la finanza

, di Fabio Todesco
Il fondatore, Kenneth Lay, è scomparso all'improvviso. Rileggiamo un libro in cui il più paradigmatico degli scandali di questi anni si snoda come una fiction manageriale

Paolo Morosetti, Fabio Zona
Giochi d'azzardo.
Strategie ed errori:
la lezione Enron
Egea, Milano

250 pagine, 24 euro

Quando fallì, il 2 dicembre 2001, Enron era la settima società americana per dimensioni. All'inizio dell'anno aveva fatto registrare un fatturato superiore ai 100 miliardi di dollari e una capitalizzazione di borsa superiore ai 60. La rivista Fortune l'aveva premiata per sei anni consecutivi come impresa più innovativa d'America.

Paolo Morosetti e Fabio Zona hanno scritto una storia del più paradigmatico degli scandali finanziari che sembra una fiction manageriale, una sorta di western nero, dove i cattivi finiscono per prevalere sui (pochi) buoni. Ma il lettore, che dall'Italia può guardare a Enron con maggiore distacco rispetto a una Parmalat o una Cirio, ha almeno la soddisfazione di chiudere il volume con la consapevolezza di che cosa non ha funzionato nella gestione dell'impresa.

Enron ha sfruttato la deregolamentazione del mercato americano dell'energia, alla fine degli anni '80, per trasformarsi da società di estrazione e trasporto di gas naturale a intermediatore fra utenti, produttori, imprese di trasporto. Ha ideato nuovi modelli matematici per coprire il rischio dei diversi operatori e si è alleata con Bankers Trust, una banca d'affari specializzata in gestione di strumenti derivati.

La deregulation esaltò le esigenze di sicurezza e regolarità del sistema ed Enron scelse di offrire contratti di lungo periodo a prezzo fisso ai propri clienti. L'operazione ebbe un tale successo, che ben presto si presentò l'esigenza di procurarsi il gas, perché quello estratto in proprio non bastava. Di qui la necessità di finanziarne l'acquisto, con l'emissione di obbligazioni e la trasformazione del core-business dell'impresa, che si faceva sempre più finanziaria, secondo i dettami di quella che i manager definivano l'asset light strategy.

"L'esperienza dei contratti a lungo termine e a prezzo fisso aveva chiaramente messo in luce che il fattore chiave del successo del settore", scrivono i due autori, "non era da ricercarsi nella mera fornitura di gas naturale, ma nei servizi di assicurazione, di gestione del rischio, volti a garantire la disponibilità nel tempo e una migliore e più flessibile gestione degli approvvigionamenti", attraverso un uso massiccio di prodotti derivati.

Nello stesso tempo, però, Enron cercò in tutti i modi di entrare in altri mercati (acqua, comunicazione a banda larga), con ingenti investimenti in strutture fisiche. L'anima asset heavy e più tradizionale dell'impresa continuava ad operare, sotto la guida di manager che avevano ampio spazio di manovra, ma che, alla fine, dimostrarono di non essere preparati a controllare questi investimenti.

Nel 1997 l'amministratore delegato, Kenneth Lay, nominò chief operating officer Jeffrey Skilling anziché la concorrente interna Rebecca Mark e la mossa fu vissuta come il trionfo dell'asset light strategy.

Con l'affermarsi dell'anima finanziaria di Enron, "invece di risolvere le debolezze strutturali dei sistemi di controllo, furono attivate le più sofisticate e avveniristiche tecniche finanziarie per nascondere il crescente indebitamento", spiegano Morosetti e Zona che, in fondo, sottolineano ancora una volta la rilevanza del fattore umano: "I valori, gli atteggiamenti, le idee di fondo dei leader hanno prodotto il mito, fino a quando le loro debolezze e le loro ambizioni irrefrenabili ne hanno decretato la peggiore fine".

Il volume è impreziosito da una prefazione di Giorgio Brunetti e un intervento di Guido Rossi.

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