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Un solo studio, ma due emisferi al lavoro

, di Leonardo Caporarello e Beatrice Manzoni - rispettivamente, SDA professor e SDA assistant professor di organizzazione e personale
Architettura. Anche in Italia, nonostante le ridotte dimensioni, l'approccio manageriale è possibile

Il panorama dell'architettura italiana è unico. In Italia ci sono più unità operative nel campo della progettazione delle attività tecniche che in qualsiasi altro paese d'Europa e c'è un architetto ogni 470 abitanti, contro una media europea di uno ogni 1.235. Dall'altro lato, però, l'Italia è anche il paese dalla più piccola dimensione media d'impresa (1,4 addetti) e con un fatturato medio per impresa tra i più bassi (108.000 euro). A mancare in Italia sono i grandi studi di architettura. E il carattere artigiano della professione rimane il modello dominante. Ma questa artigianalità è solo riconducibile a caratteristiche strutturali del sistema dell'architettura in Italia o anche al presupposto, errato, che gestire in modo efficiente uno studio da un lato uccida la creatività e dall'altro sia prerogativa dei grandi? Essere piccoli non è sempre un limite reale alla possibilità per uno studio di architettura di essere ben gestito, competitivo e redditizio. L'importante è riconoscere alcuni aspetti. Primo: il management dell'architettura non è solo project management ma anche practice management. Gli architetti vivono di progetti, ma è importante anche gestire lo studio professionale, inteso come organizzazione di strutture, ruoli e persone.

Rem Koolhaas, architetto olandese premio Pritzker per l'architettura, il 16 marzo scorso in Bocconi davanti a 800 architetti, iniziava il suo intervento con una slide bianca e la scritta "management" in nero barrata con una croce rossa. L'architettura, sosteneva Koolhaas, è un mercato unico nel suo genere, dove parlare di management nel senso tradizionale del termine crea ambiguità e dove logiche e strumenti di management non possono essere applicati senza tenere conto delle peculiarità del settore. Osservando l'evoluzione dello studio fondato da Koolhaas (OMA) il management c'è. La strategia dello studio è cambiata di pari passo al contesto, alla struttura organizzativa e ai processi. Le competenze di management, a livello individuale e organizzativo, hanno fatto la differenza nel passare dalla fase di starving artist degli anni Settanta a quella attuale di globalizzazione e retreat. Secondo: un buon architetto può essere anche un buon manager, oppure può sceglierne uno al proprio fianco. Gli architetti hanno il potenziale per essere anche dei grandi manager. Questo grazie a problem solving creativo e design thinking attitude.Intervistato per Harvard Business Review, Norman Foster, architetto inglese fondatore di Foster + Partners (15 uffici nel mondo, più di 1.000 dipendenti e progetti in oltre 40 paesi diversi), suggerisce cosa fa di un architetto un buon architetto: orientamento al risultato e all'eccellenza, propensione alla sperimentazione, curiosità, umorismo. Ma anche capacità di restituire feedback costanti, positivi e negativi, al proprio team, capacità di ascolto e dialogo con il cliente, di negoziazione e di problem solving. In alternativa, gli architetti possono cercare un 'emisfero sinistro' che li completi. Diverse aziende, anche nei settori creativi, dimostrano che modelli di innovazione vincenti, anche in tempi di crisi, si basano su una coppia al comando: una mente analitica, logica, razionale, numerica (emisfero sinistro) e una mente intuitiva, immaginativa e visuale (emisfero destro). Dalla combinazione delle due, il bilanciamento tra dimensione creativa e dimensione commerciale è molto più facile.Sul sito www.sdabocconi.it/architetturaemanagement un questionario mappa le competenze di management, per lo studio di architettura e per l'architetto. Sia quelle tecniche (marketing, amministrazione e controllo, strategia, organizzazione e risorse umane) sia quelle relazionali (orientamento al risultato, alle relazioni, allo sviluppo personale e delle altre persone).